Vudafieri-Saverino Partners è un atelier creativo il cui lavoro spazia dall’architettura all’interior design fino al retail. Lo studio è gestito dai soci Claudio Saverino e Tiziano Vudafieri e una quarantina di collaboratori. Con sede a Milano e Shanghai, nella sua ventennale carriera ha sviluppato progetti in quasi tutti i paesi e continenti, adottando sempre un approccio attento per affrontare i grandi temi della cultura contemporanea, della città, del paesaggio e della società. Ogni spazio progettato esprime lo stretto rapporto tra i valori del cliente e quelli del contesto, creando una composizione di forma e funzione, segno e dettaglio. Il risultato è un metodo progettuale che combina l’identità dei luoghi con una specifica “strategia di storytelling”.
1 – Le problematiche del periodo storico in cui viviamo, accentuate dalla pandemia causata dal Covid, ci inducono a ripensare le condizioni dell’abitare e del vivere comune. “How will we live together?”, il tema scelto quest’anno da Hashim Sarkis per la Biennale di Venezia, indaga proprio questa necessità di concepire in maniera diversa lo spazio in architettura. Rispetto al vostro ruolo di architetti, ma anche di interior designer, qual è la vostra opinione in merito a questa nuova esigenza?
C.S. Il problema dell’abitare non è solo un fatto che riguarda gli architetti, ma è anche un fatto politico ed economico, che deve ripensare gli spazi del vivere. Questa pandemia ci sta cambiando e ci permette di ragionare su vari livelli di pensiero: come sono state strutturate le città, se è giusto che le città siano sempre più dense, come devono essere costruite quelle nuove, come viviamo. Bisogna quindi cambiare il modo di stare insieme nelle città, si starà meno dentro e più fuori, le strade diventeranno dei luoghi sociali, più interessanti di prima, con meno macchine. Da parte dell’urbanistica tattica ci saranno molti interventi di questo tipo, tra cui un nostro progetto di piastre che stiamo ultimando per uniformare e standardizzare questo processo.
T.V. Dalla strada/città alla casa. Questa esperienza porterà a liberare gli spazi della casa, per distribuirli in aree comuni, dando così maggiore spazio ad altre attività. Si troveranno anche nelle case piccole dei luoghi diversi in cui stare, le funzioni delle case diventano ibride, una casa fluida, che non ha gerarchie.
© Vudafieri-Saverino Partners, Progetto Landscape, via Melzo, Milano, 2020.
2 – Questo periodo ci ha reso più consapevoli rispetto alle mancanze ed alle possibilità non solo dei nostri ambienti domestici, ma anche delle prossimità e di ciò che la città ci offre. Bisogna quindi ripensare gli spazi non in maniera fine a sé stessa, ma relazionandoli alle necessità del singolo ma soprattutto del collettivo. Quali risposte può dare l’architettura?
C.S. L’architettura è una conseguenza di scelte politiche e culturali antecedenti o parallele, non è l’architetto che da solo può risolvere queste tematiche. Capisco il senso profondo della città in 15 minuti, ma se viene applicato significa avere una città non strutturata. L’idea soggiace un pensiero profondo e vero di mancanza di grandi parti delle nostre città e periferie a cui comunque bisogna dare risposte e strategie nell’immediato. Non sono sicuro che applicare il modello come slogan sia una cosa di buon senso e lineare.
T.V. Bisogna certamente stabilire delle gerarchie tra cosa è il centro e cosa sono i satelliti intorno. Sia io che Claudio viviamo in due quartieri che sono molto fortunati in termini di servizi di base, Porta Venezia e Isola. I negozi di quartiere stanno scomparendo per le decisioni politiche in favore della grande distribuzione. Gli spazi ci sono, ma vengono mangiati da decisioni politiche sbagliate.
3 – Ho letto in un’intervista come per voi la parte fondamentale del lavoro è il rapporto con il committente, il “progettare relazioni” che raccontino la storia che c’è dietro ad ognuno di loro. Quello che più mi ha colpito è come i vostri progetti vengano pensati per il luogo e con il luogo, siete stati infatti i primi a concepire il concept degli store tramite un DNA comune che si sviluppa successivamente in base alla città e al contesto nel quale verranno collocati. È dunque il luogo a dettare le regole e a plasmare lo spazio?
T.V. Questa questione del genius loci ha molte sfaccettature. Abbiamo avuto dei progetti, ad esempio i due ristoranti milanesi Dry, di cui siamo anche soci e fondatori, in cui il lavoro era praticamente finito e poi un’ occasione, un accadimento durante il cantiere, ci ha fatto modificare il lavoro fatto. Il posto diceva già tutto quello che volevamo raccontare, abbiamo fatto un passo indietro, per lasciar parlare il luogo. Poi ci sono progetti, come le boutique Delvaux, in cui la matrice è la stessa, però il negozio di Milano dialoga con Milano in una maniera profonda, quello di Parigi con Parigi, quello di New York con New York… Sono omaggi alla città, alla sua cultura, è interessante perché è molto facile capire quali sono i codici che si ripetono, ma è anche molto facile e leggibile capire qual è la parte “locale”. Sono storie che rivendichiamo e raccontiamo attraverso i negozi.
C.S. Il luogo è un potenziale attore, ma più che sul luogo è interessante focalizzarci sulla narrazione. Abbiamo infatti applicato l’idea di concept, di un filo rosso che racconta una storia unica, una narrazione del luogo, del cliente e della nostra poetica.
© Vudafieri-Saverino Partners, Progetto Headquarter, Appiano, 2016-in corso.
4 – In merito alla domanda precedente vorrei citare una frase da voi rilasciata in un’altra intervista: “Per essere milanesi bisogna capire i BBPR e la Torre Velasca”, architettura molto vicina ai vostri concetti, che dialoga con gli edifici storici della città pur restando un’architettura per le sue forme e dimensioni definita moderna. Ernesto Nathan Rogers, in quegli anni molto impegnato del dibattito architettonico introduce nozioni inedite quali “preesistenza”, “ambiente” e “continuità”; termini che nella situazione in cui ci troviamo oggi risultano molto attuali. Secondo il vostro pensiero le architetture e la Milano di oggi si pongono ancora in questi termini?
T.V. La Torre Velasca ha un condensato di Genius Loci assolutamente perfetto, è un’architettura moderna/contemporanea, ma ha anche un profondo rispetto delle preesistenze e dei simboli di Milano. Siamo certamente favorevoli ai due interventi che hanno cambiato la faccia della città di Milano, che sono Porta Nuova e City Life, architetture un po’ internazionaliste. Cito una frase di Gustav Mahler “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. La tradizione può essere una cosa viva, probabilmente con City Life e Porta Nuova si è persa un po’ l’occasione di ragionare in termini contemporanei su questa storia. Noi nel nostro piccolo, nei nostri lavori di interni ci divertiamo a farlo, come nel ristorante Berton o Peck City Life, che vogliono essere in continuità con questa storia.
C.S. Non vogliamo con queste affermazioni dichiararci passatisti, non è una critica ai due interventi, trovo infatti che l’impianto urbanistico di Porta Nuova sia un intervento straordinario, ha spostato il centro della città e ha creato un centro nuovo. Per fare un po’ gli accademici si poteva fare uno sforzo di pensiero forse più locale, per quanto riguarda il linguaggio architettonico, cercare di essere meno International Style e più con un linguaggio italico. Noi ci abbiamo provato, con l’edificio che abbiamo fatto ai margini di Porta Nuova in via Volturno, un’operazione difficile da molti punti di vista, dove abbiamo cercato di rivisitare e rileggere un linguaggio razionalista degli anni 50-60 e farlo diventare contemporaneo.
© Vudafieri-Saverino Partners, foto di Nathalie Krag, Dry Milano, Milano, 2013.
5 – Molte riviste vi definiscono interior designer, per via dei vostri numerosi progetti e concept di negozi e ristoranti. Siete d’accordo in merito a questa settorializzazione della professione?
C.S. Siamo architetti e il primo lavoro che facciamo è appunto un lavoro sullo spazio, che rimane quindi profondamente architettonico. Non è possibile pensare all’architettura degli interni senza pensare all’esterno, sono una cosa sola. Ovviamente larga misura della nostra attività professionale è fatta soprattutto di architettura d’interni, siamo conosciuti per il retail, i ristoranti, ma rimaniamo profondamente architetti. Possiamo però anche dire che quando facciamo architettura siamo un pò interior, poniamo particolare attenzione al contenuto, perché è dentro che dobbiamo vivere. La specializzazione è pericolosa perché implica il fatto che diventi una professione, mentre la forza della nostra tradizione culturale è quella politecnica, dove il mestiere dell’architetto è nella stessa misura un mestiere umanistico, tecnologico, culturale e sociale. La valenza sociale nel nostro mestiere molte volte si perde, soprattutto a livello internazionale percepisco nei nostri clienti una non rilevanza di questo aspetto. Il ruolo sociale e pubblico del mestiere dell’architetto sta un po’ scemando in favore di una iper specializzazione di piccoli settori di mestieri che fanno perdere di vista il generale.
T.V. Per tornare ad Ernesto Nathan Rogers “dal cucchiaio alla città”, siamo profondamente milanesi come attitudine, non facciamo design del prodotto o urbanistica, anche se il nostro ultimo progetto delle terrazze esterne è un progetto di urbanistica tattica. Siamo quindi contro questa specializzazione, lavorando in tutto il mondo troviamo molto difficile spiegare questa cosa, soprattutto al mondo anglosassone, ma anche a quello cinese.
© Vudafieri-Saverino Partners, foto di Santi Caleca, Delvaux, Milano, 2018.
6 – Come da voi dichiarato, pur vivendo in un contesto molto influenzato dai grandi maestri del passato, i vostri progetti traggono ispirazione dalle esperienze che vivete in prima persona nella vostra vita. Oltre alla materia e alla luce che plasmano lo spazio, possiamo quindi affermare che è anche il tempo un fattore importante nei vostri progetti?
C.S. La materia cambia, gli spazi cambiano, devono adattarsi e si tramutano. Solo i monumenti rimangono uguali a sé stessi, le case che si abitano, le città che si vivono cambiano in continuazione. Il progetto in qualche misura deve quindi tenere conto della trasformazione.
T.V. A noi piacciono i progetti e i luoghi che cambiano nel tempo, che invecchiano. La ceramica è più etica del marmo, perché per rifare un blocco di marmo ci vogliono dieci milioni di anni, però la ceramica non si rovina, questo è il problema. Casa mia è stata pubblicata sei o sette volte ed è sempre diversa, la rivoluzioniamo completamente, è sempre in trasformazione. Altra cosa che ci sta facendo riflettere sul tempo che genera e influisce sul design dell’architettura, è un progetto di un albergo di lusso che è un simbolo storico, su cui stiamo lavorando in questo momento. È come se fosse un incrocio tra due assi, aprire l’albergo verso l’esterno, collegarlo con la città e renderlo permeabile, e poi dentro inventarci una scansione che diventa architettura, che scandisce il tempo. Sono presenti delle situazioni che ti incitano a rallentare e a fermarti dando qualità a spazi diversi. Il tempo sta disegnando questa architettura e con il tempo stiamo giocando anche per riscoprire le stratigrafie del suo passato.
© Vudafieri-Saverino Partners, foto di Santi Caleca, Ristorante Berton, Milano, 2013.
7 – Ad oggi qual è la vostra definizione di Architettura?
T.V. È un processo collaborativo, non solo con il cliente e il luogo, ma anche con gli altri progettisti. Noi siamo architetti poliedrici, ci sono però altri professionisti che intervengono in maniera molto attiva. Il progetto di questo albergo è interessante anche nella collaborazione di questo gruppo di progettazione, che dialoga, ascolta e aiuta gli altri a fare quello che vogliono, parlano le parole degli altri. È un processo collaborativo per disegnare degli spazi, per trasformare in qualcosa di fisico delle trasformazioni sociali, dei modi di vivere.
C.S. Io voglio invece cercare di spiegare cos’è l’architettura, cercando di definire cos’è il nostro mestiere. Ho avuto in passato un diverbio amichevole con un collega e amico perché io definivo l’architetto un regista e non un autore. Premetto che su queste due posizioni ci sia un po’ un modo di vedere dualistico, l’architettura come gesto autoriale, è una disciplina complessa e multidisciplinare, in cui l’architetto è un regista che cerca di governare una complessità; mentre la visione autoriale, è una visione in qualche misura forse un po’ antica della nostra professione, una visione edonistica.
© Vudafieri-Saverino Partners, foto di Paolo Valentini, Plastico del grattacielo Volturno 33, Milano, 2012.
8 – Quale consiglio vi sentite di dare a chi intraprende oggi la professione di architetto?
C.S. Non scordarsi mai che le architetture sono fatte per essere abitate e le città per essere vissute. Un’altra cosa che mi viene da citare è una frase di Magistretti: “ricordati che le case devono essere vendute, se non vengono vendute significa che c’è qualcosa di sbagliato”, questo non significa trasformare la casa in un prodotto, ma significa che se una casa non viene comperata, non funziona, non in senso funzionalista, ma perché non viene vissuta. Il consiglio che mi sento di dare è di non dimenticarsi mai della valenza sociale.
T.V. Gli consiglierei di essere curioso, la disciplina architettonica gli verrà insegnata a scuola, deve quindi interessarsi alle altre discipline; capire l’arte meglio che può, quindi l’arte contemporanea, perché è la più difficile da sempre, è sempre stata contemporanea l’arte ed è sempre stata capita da pochi in quel momento. Capire anche quello che succede nel nostro mondo, capire la cucina, i modi di stare a tavola e stare insieme; essere quindi curioso rispetto alle altre discipline.