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Luci e ombre del tempo: intervista a Vincenzo Latina

Noto sempre, ogni volta che mi imbatto in Vincenzo Latina, il silenzio. Quel prezioso silenzio che contraddistingue l’uomo fatto di valori. Sono pochi al giorno d’oggi. Semplicità, cultura, profondità, umiltà. Sono questi i primi che percepisci quando ti confronti con lui. E sono gli stessi valori che quest’Uomo, prima ancora di essere Architetto, riesce a trasformare in Verità nella Sua Architettura. Un’Architettura silenziosa, minuta, forse timida, ma consapevole, potente e spettacolare. Un’Architettura tessuta nelle trame del tempo, ricerca dopo ricerca, pietra dopo pietra…

Vincenzo Latina, nato nel 1964, consegue nel 1989, con Francesco Venezia, la Laurea in Architettura presso lo IUAV di Venezia.

Vincitore di numerosi premi e riconoscimenti. Tra i più importanti e recenti ricordiamo la “Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana 2012” e il “Premio Architetto Italiano 2015”.

Attualmente è Professore di composizione architettonica e urbana all’Università di Catania, e Architetto, cultore della materia, della luce e dell’ombra, che svolge la professione nella sua Sicilia, a Siracusa.

1 – A Suo parere quali sono le differenze che sussistono, tra oggi e lo scorso secolo, nell’atto del progettare e quindi di fare Architettura?

La cultura industriale negli ultimi decenni si è rivelata particolarmente pragmatica, al servizio del mercato delle costruzioni e delle tendenze dell’Architettura contemporanea. Allo stesso modo alcuni critici di Architettura, e gli editori del settore, pur di avere qualche vantaggio, come la pubblicità nelle di riviste, e/o la sponsorizzazione di mostre ed eventi, si sono prestati alla promozione di alcune Architetture particolarmente correlate all’industria delle costruzioni. Tale stato ha contribuito all’appiattimento e forse alla banalizzazione dell’Architettura. Da alcuni decenni l’Architettura ha bisogno della chiarezza del messaggio e del programma, tutto ciò è reso possibile attraverso una sorta di speciale “stampella”, quella dell’aggettivazione. L’Architettura bioclimatica, l’Architettura solidale, l’Architettura della decostruzione, del green e altro ancora, come se non bastasse la definizione stessa di Architettura.

Ognuno “incolla” all’Architettura contemporanea l’aggettivo, la connotazione più confacente, più utile al programma politico del momento, passando da una tendenza all’altra, per essere riconoscibili e presenti nel mercato globale della comunicazione e delle costruzioni. Bisogna opporre resistenza alle conseguenze del mercato globale dell’Architettura.  Invece l’Architettura si è costantemente nutrita, per migliaia di anni, di alcuni principi del costruire come il suolo, la superficie, la luce, lo spazio e la materia. Se si dimentica tutto ciò, non si riescono a distinguere le peculiarità che caratterizzano l’ingegneria, l’Architettura e l’edilizia.

Le Corbusier, fra una moltitudine di eccellenze dell’Architettura del XX secolo, è riuscito con straordinaria capacità a comunicare, anche attraverso il culto della propria personalità, l’Architettura del suo tempo. L.C. è stato un pioniere che ha compreso l’importanza dei “nuovi” materiali (fra questi il cemento armato e l’acciaio) e dei nuovi sistemi dell’industria delle costruzioni codificandoli nei “cinque punti dell’Architettura”. Ha saputo promuovere i nuovi principi del costruire “razionale” del nuovo linguaggio. L.C. ha trovato la sintesi tra la composizione dei nuovi elementi del suo programma e l’Ordine sotteso dei rapporti armonici, quelli che regolano le proporzioni e le partizioni dell’Architettura classica e quella storica di eccellenza.  Nella contemporaneità, la ricerca dell’Architettura si è invece prevalentemente incentrata sui rivestimenti, le superfici, la “pelle” degli edifici e i sistemi di facciata. La ricerca delle superfici è espressione di una società anch’essa… superficiale. È difficile ritrovare profondità di pensiero. Siamo pervasi dalla società dell’apparenza, e forse dalla società “banale”… per cui è sufficiente escogitare un telaio adatto per gli apparati e poi parassitarci sopra un profilattico: verde, blu, rosso… Si percepisce l’esterno (il fuori) come un pericolo. Per cui, si escogitano i sistemi “buoni”, quelli “ecologici”, quelli “sostenibili”, che connotano gli edifici della società contemporanea. E, purtroppo, rappresentano il pericolo della eccessiva banalizzazione della cultura contemporanea.

2 – Ritiene che ci sia stato un fenomeno storico in particolare che ha decretato il cambiamento nell’atto del progettare in Architettura?

Negli ultimi decenni siamo stati pervasi da una sfrenata fiducia verso l’innovazione tecnologica, e le sue applicazioni virtuali o reali che siano. Ci siamo lasciati incantare dai sofisticatissimi software, dalle performance dei più potenti hardware. Questi eccezionali strumenti ci hanno permesso di elaborare calcoli inimmaginabili sino a qualche anno fa e hanno consentito di visualizzare e manipolare la materia, le superfici e lo spazio in modo stupefacente. Tutto ciò ha avuto anche il rovescio della medaglia, ha spostato la percezione della disciplina dell’Architettura facendola eccessivamente propendere verso una concezione ludica e spettacolare, l’Architettura come intrattenimento. L’Architettura non è né intrattenimento, né vertigine (come ne parla anche Gregotti, in tono molto critico, a proposito di Zaha Hadid… lo “sghimbescio”…). Il problema è che la rappresentazione e la realizzazione di questo genere di Architettura richiedono una sofisticatezza di elaborazione e di gestione dei processi produttivi. Un’Architettura per pochi, costosissima, quasi elitaria, edifici totemici, forme uniche che generano isolamento, la solitudine dell’Architettura. Invece, sono convinto che si possa realizzare l’Architettura, anche quella di eccellenza, con meno sforzi tecnologici e con meno mezzi e risorse. L’Architettura che i mass media ci propongono è una nicchia della produzione industriale, anche se globale. Ci sono tanti popoli e culture nel mondo che costruiscono mirabili architetture che noi non conosciamo, e forse mai conosceremo, che con meno supporto tecnologico e industriale raggiungono allo stesso modo eccellenti risultati. Non conosciamo tali esperienze perché i media e i social sono prevalentemente focalizzati soltanto su pochi architetti e le loro opere frutto della omologazione.

3 – Oggi, facendo un confronto con lo scorso secolo, ritiene sia ancora possibile parlare di stili o tendenze?

Non direi che si tratti di stile. Sono mode, delle infatuazioni repentine e passeggere. Non è più una questione ideologica, nemmeno di lingua o di sintassi dell’Architettura. La moda deve soddisfare il prodotto dell’industria, una volta esaurito un filone se ne ricerca un altro. Un po’ come cambiano repentinamente i modelli degli smartphone, è il mercato che corre.

4 – Quali sono oggi i valori da perseguire per fare Architettura?

Bisogna essere generosi. La nostra vita ahimè è pure una sommatoria di sconfitte, di concorsi persi, di committenti, di commissioni, di giurati di enti che forse non comprendono o sono interessati ad altro, di lobby di ogni genere che fanno i loro interessi. Fai tanta ricerca progettuale che spesso non è compresa, è sottostimata o malamente remunerata. L’esercizio dell’Architettura è diventato simile ad una passione, a volte la sola professione non basta per vivere, se non si perseguono interessi commerciali, se si è alla ricerca di alcuni valori della coerenza, della ricerca paziente. Per cui, prevalentemente lo fai per te, con la speranza che gli altri apprezzino o almeno recepiscano. Lo fai per te perché, a volte, è simile a respirare, ti viene naturale e non puoi farne a meno.  È una delle ragioni per incidere con la nostra esistenza, sulla società, sul paesaggio, sulla terra. Bisogna essere generosi con gli altri e con sé stessi, non arrendersi alle continue avversità. È necessario perseverare, e non per raggiungere il successo, bensì per poter esprimere il diritto alla propria esistenza, e forse anche alla libertà. Essere liberi e contemporaneamente cercare di non perdere la scommessa contro l’intemperante banalizzazione della contemporaneità.

5 – Qual è la Sua opinione critica nei confronti dell’Architettura che viene prodotta oggi?

A volte è eccessivamente caratterizzata dai luoghi comuni, si fa uso di slogan e del marketing che veicola la bellezza sostenibile, l’Architettura “dolce”, l’Architettura buona, quella amica, a basso impatto, a Km0, l’Architettura Robin Hood. Altre volte, l’Architettura viene ricondotta all’assolvimento di essenziali requisiti energetici. Tutto è incentrato nella riduzione della produzione di CO2, l’applicazione di collaudati protocolli. Per poi scoprire che una considerevole fonte di inquinamento atmosferico e delle falde, grande consumo di acqua potabile è provocato dagli allevamenti intensivi di bestiame. In alcuni casi, per ridurre la dispersione energetica, si adoperano materiali e sistemi particolarmente complessi ed onerosi di per sé insostenibili. Sostenibile e resiliente sono diventati aggettivi abusati, sono dei passe-partout per chi cerca di “mascherare” dietro lo slogan il notevole programma edificatorio. Per altri sono delle insostituibili “stampelle”, una specie di carta di credito della nuova Architettura. In Italia abbiamo assistito con la ricostruzione post bellica della seconda guerra mondiale ad una sintesi straordinaria tra l’artigianato ancora presente nel processo della produzione dei beni e dei servizi, e l’industria appena ricostruita, si vede dall’alta qualità dell’Architettura e del design. Una sorta di artigianato industriale, in cui al centro stava ancora l’uomo. Uno dei maggiori problemi che si prospetterà nella ricostruzione di Notre Dame sarà il tipo d’intervento. La ricostruzione della grande foresta strutturale di travi in legno?  Oppure la realizzazione di un’opera che sia espressione della cultura architettonica e dei processi industriali del momento?  Ricostruire con quale cultura artigianale? È uno di quei patrimoni che stiamo rischiando di perdere. Per riportare al centro l’uomo e non il ciclo e i ritmi di produzione, si dovrebbe opporre resistenza alla massificazione, alla dittatura del prodotto industriale globalizzante per far rifiorire delle nicchie in cui possa rinascere la cultura del costruire, con al centro l’uomo e la sua manualità semi artigianale.

Per far ciò bisognerà affrontare i temi e le norme della perfezione e della precisione, di alcuni protocolli del costruire come il BIM. Sta diventando uno dei più grandi problemi dell’Architettura contemporanea. I software applicati al processo industriale hanno consentito di realizzare architetture caratterizzate da geometrie topologiche, le quali richiederanno nelle manutenzioni e/o trasformazioni, per sempre, gli stessi precisi pezzi fatti su misura. L’Architettura è una macchina. Invece si dovrebbero prediligere opere in grado di farsi contaminare così da trovare nel tempo forme di persistenza, di maggiore resistenza. L’Architettura non dovrebbe essere a scadenza preordinata, come molti prodotti industriali, come le automobili. Deve sopravvivere più a lungo, costruire richiede l’impiego di grandi energie, non soltanto economiche ma quelle che il nostro pianeta mette a disposizione. L’edificio macchina da abitare non funziona più. Non ci possiamo permettere il lusso di cambiarla come se fosse un elettrodomestico. Si dovrebbe riscoprire la sacralità del costruire e dell’opera dell’uomo.

6 – È possibile al giorno d’oggi portare avanti una qualsiasi ricerca architettonica? Se si, Lei ne predilige uno?

A mio avviso, la costruzione tettonica, il luogo, la materia, la luce sono i migliori strumenti dell’Architettura di ogni tempo, sono quelli che rappresentano i temi fondanti di matrice egizia e greca. Valori che persistono nella nostra cultura. Gli edifici con l’azione del tempo e degli eventi ambientali diventano mutevoli. Grazie alla luce e al gioco delle ombre, la materia sembra continuamente che cambi, si trasformi. Prediligo gli edifici che dormono durante la notte e parte del giorno e poi, grazie ad una condizione favorevole di luce si sveglino e ti raccontino chi sono, come sono stati realizzati, chi li ha realizzati. Tutto ciò accade grazie ad un raggio di luce. A volte che riveli pure i “difetti” di montaggio, il taglio di alcuni materiali. Amo certi piccoli errori, per alcuni sono dei “difetti”, sono l’esito dell’umanizzazione. L’edificio acquista la bellezza della complessità. Gli uomini sbagliano e pertanto anche negli edifici si possono trovare tali limiti. Quegli edifici che contengono in sé quella splendida cifra di umanità. E’ proprio su di questi che si sommeranno le ricostruzioni, i ripensamenti, i cambiamenti, le stratificazioni.

L’integrità assoluta non fa parte del mondo dell’Architettura, eppure è un’ossessione costante. La contaminazione è una forma di arricchimento e l’esclusività, a volte, di impoverimento, porta alla selezione e ad una più veloce estinzione. La contaminazione consente di mischiare, di ibridare, di far interagire più parti dell’Architettura. L’industria della perfezione non consente tutto ciò.  È sterile.

7 – Quando, come e perché ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la Sua strada?

C’è un episodio, un ambiente o una situazione particolare nella vita in cui le persone, per qualche strana ragione, si sentono contagiate, da un luogo, un edificio, un viaggio, una persona o una conferenza. E così nasce la passione, è simile ad ammalarsi, e non te ne fai una ragione, perché ne diventi dipendente, non puoi più farne a meno. Mi ricordo il momento. Era l’inverno del 1988, ero studente dello IUAV al quarto anno di corso e per caso assistetti ad una conferenza dei “quarantenni”, le giovani promesse dell’Architettura italiana. Vi capitai per caso. Fino a quel momento avevo più volte assistito allo IUAV alle diatribe, alle dispute interne tra “gregottiani” e “rossiani”.

Tra i cinque o sei relatori invitati Francesco Venezia, nei trenta minuti della sua descrizione del progetto di ricomposizione dei resti del Palazzo Di Lorenzo a Gibellina mi schiuse un mondo. Era una fredda e nebbiosa   giornata d’inverno veneziano. Le diapositive che illustravano le modulazioni del sole, il gioco delle ombre del caldo sole di Sicilia, mi catturarono. Fino a quel momento nessuno aveva parlato della sensualità della luce, della sua potenza espressiva, della bellezza della materia e le sue declinazioni. Appena tornato in casa dello studente cambiai l’imposta del letto, sino a quel momento dava le spalle all’alto edificio posto di fronte, a pochi metri della finestra, era simile ad una barriera, un muro. Lo stesso muro, fino al giorno prima lo avevo percepito come privazione, non ne comprendevo il valore. Da quel momento in poi il muro diventò l’universo delle ombre, delle luci e dello spazio, delle sospensioni. Stavo per ore sdraiato sul letto a contemplare il gioco del variare delle flebili luci invernali e delle ombre veneziane, delle asperità dell’intonaco, della sua matericità. Quel muro da prigione era diventato un universo, per vedere oltre, altro.  Il giorno dopo incontrai Francesco Venezia, casualmente, era in attesa davanti l’ingresso del portale di Scarpa ai Tolentini, mi venne quasi naturale chiedergli di fare da Relatore della Tesi di Laurea, avevo già individuato un’area archeologica a Siracusa, da lì iniziò il viaggio. Dopo venticinque anni sono riuscito a realizzare il padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision di Ortigia.

8 – Ad oggi qual è la Sua definizione di Architettura?

L’Architettura è tutto quello che è necessario ed è pure “superfluo” ai più, alla costruzione degli edifici e alla vita degli uomini. La costruzione, il riparo, la protezione, sono stati nei millenni necessaria espressione astratta e simbolica della cultura e dell’organizzazione di molte attività umane. Allo stesso modo, quello che molti colgono come non necessario, ad altri risulterà come espressione essenziale dell’Architettura. È necessario il mondo delle ombre per determinare la poetica della declinazione della luce in Architettura; senza ciò Architettura non è. A volte ci si innamora di un, per alcuni superfluo, taglio generato dall’ombra su una parete. Per alcuni potrà risultare non essenziale la poetica che genera profonde immagini e che evoca immaginari, invece senza ciò non realizzeremmo Architettura.

A volte, la passione profusa nella minuzia del dettaglio non è minimamente recepita, eppure è un valore indissolubile dell’Architettura.

9 – Quale consiglio vorrebbe dare ai futuri architetti?

Essere GLOCAL, globali e locali contemporaneamente. Essere locali nel cogliere e rappresentare la cultura del territorio e al contempo essere globali nel guardare oltre, coi piedi saldi sulla terra e con la testa oltre le nuvole.

Questo può consentire di non perdersi dietro repentine mode e di avere, invece, la testa libera di guardare oltre il contingente. Il web consente, di fatto, di conoscere tanto, ma l’eccesso di informazioni ti porta, anche, ad una forma di accecamento, di appiattimento culturale.

Invece, la ricerca paziente e ostinata, porta ad essere più selettivi e critici, a conoscere le cose nel loro intimo, quello più profondo.

Guardare meno le riviste di settore, ascoltare meno alcuni critici e i soloni. A volte lo fanno per tornaconto personale. Bisogna viaggiare, vivere i luoghi anche con l’immaginazione.

Costruirsi un proprio bagaglio culturale autonomo, sentire le emozioni ma non farsi travolgere da esse.  L’Architettura va sentita, digerita, sedimentata, richiede tempi lenti. Abituarsi alle sconfitte e alle delusioni, perché il nostro percorso è uno dei più impervi, è tra i più affascinanti. Non bisogna mai perdere la follia.

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In 2017 he collaborates with the TA.RI. Architects. The same year, together with three professionals, he founded the OSA collective, awarded in some international competitions. In 2018 he graduated in Architecture Sciences in the faculty of Rome “La Sapienza”. He currently attends the Master at the Polytechnic of Milan. His personal research is aimed at the intellectual process which has the intention of producing that refinement found in the gesture of building, causing feelings and emotions for the individual who lives in space.
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