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Il clima sta cambiando e così le comunità: intervista a Marìa del Carmen Mendoza Arroyo

Il clima sta cambiando e il mondo con esso. Quali saranno gli effetti di questo cambiamento sulle comunità più fragili? L’abbiamo chiesto a Marìa del Carmen Mendoza Arroyo, professore all’Universitat Internacional de Catalunya e co-direttore del Master of International Cooperation in Sustainable Emergency Architecture.

1 – Oggigiorno, che tipo di impatto sta avendo il cambiamento climatico sulle comunità più fragili?

Con l’immigrazione causata dall’aumento del cambiamento climatico e con l’aumento degli eventi naturali nella loro frequenza e la loro violenza:
Il cambiamento climatico sta colpendo tutto il mondo, e pertanto, quando si verifica una crisi o un disastro (causato dall’uomo o naturale), si mostrano le vulnerabilità esistenti di un sistema. In questo senso, nei paesi o nelle comunità che prima delle catastrofi dovevano già affrontare delle vulnerabilità (sociale, economica, di governance, ecc.) l’impatto è peggiore. Pertanto, stiamo vedendo più chiaramente gli effetti nelle comunità fragili. Sebbene gli eventi siano globali, è importante insisitere che un recupero efficace e di rilevanza culturale è collegato a strutture di risposta adattate e localizzate anziché ad approcci globali.

2 – Che tipo di elementi tecnologici o tecniche costruttive possono essere adottate per mitigare le conseguenze di questi eventi?

È importante sottolineare che la maggior parte della ricostruzione è effettuata da famiglie e costruttori locali, ed è questa capacità che deve essere sviluppata per ottenere edifici più sicuri. In altre parole, il primo e più importante requisito è che le comunità locali nelle regioni colpite siano considerate dei collaboratori attivi, piuttosto che beneficiari indifesi del nostro aiuto. Pertanto, il nostro lavoro deve creare opportunità per lo sviluppo di capacità in modo che i professionisti locali possano seguire processi complessi, e questo deve essere considerato una priorità da affrontare prima che si verifichino catastrofi. Pertanto, una delle principali sfide della nostra professione è la co-creazione di conoscenze, la condivisione di esse e la loro traduzione in atti giuridici locali in paesi a rischio, al fine di introdurre processi di costruzione migliori e più sicuri.

3 – Quale sarà il ruolo del “Mondo Occidentale” e che tipo di relazione avrà con i paesi più vulnerabili e con meno capacità di reagire a questo tipo di crisi?

Oggi gli studi sui disastri e le pratiche sono messi in discussione per essere stati influenzati troppo dai concetti occidentali e dominati dalle idee sviluppate nei paesi ricchi. Questo è dovuto al fatto che molto spesso dimentichiamo che l’architettura deve promuovere l’unicità di un luogo e, a tal fine, dobbiamo mantenere viva la sua cultura. Da questa prospettiva, i nostri obbietivi pilota per creare resilienza e adattarsi ai disastri, è quello di lavorare con le cause, la storia e le culture in cui interveniamo. La cultura locale faciliterà il lavoro o lo inibirà se il nostro lavoro è contrario alla cultura. Quando si rafforzerà il senso del posto negli sforzi per ridurre il rischio di catastrofi, riprendersi dai disastri e migliorare le città, emergerà la possibilità di autonomia, nonostante l’attuazione di concetti tecnici occidentali.

4 – Quali saranno le conseguenze di tutto questo nel modo in cui facciamo Architettura?

Oggi le varie figure professionali che lavorano in Architettura devono accettare che il nostro campo si sta fondendo con altre aree, come l’adattamento ai cambiamenti climatici e l’aumento degli spostamenti e delle migrazioni, che stanno cambiando il campo in modo sostanziale. Si tratta di un campo di lavoro sempre più complesso. Questa complessità richiede una visione sfaccettata e completa su diverse scale dell’ambiente costruito e naturale, molte più risorse, nonché una maggiore esperienza. D’altra parte, come professionisti e accademici dobbiamo capire la relazione tra ciò che conosciamo, come si riferisce alla nostra esperienza, e ciò che non sappiamo o non possiamo sapere, in modo da non creare relazioni di dominio o imposizione. Inoltre, lavorare professionalmente è fondamentale, oltre a riconoscere che le comunità locali hanno bisogno di un sostegno attivo nell’elaborazione della propria ripresa e nella costruzione in modo sicuro ed efficiente.

5 – Nel 2017 lei ha pubblicato “Rethinking refugee camp design from temporary camps to sustainable settlement“. Crede che con l’aumento del numero di calamità naturali e conflitti i centri per rifugiati diventeranno sempre meno temporanei acquisendo una loro identità e dignità architettonica?

Questo articolo, basato sulla ricerca di dottorato sviluppata da Nasr Chamma, riconosce il fatto che tutti i campi sono situazioni prolungate. L’UNHCR spiega che 18 anni è il tempo previsto per un conflitto dopodichè i campi creati non sono più temporanei. I campi sono stati di eccezione e non dovrebbero essere promossi se non per le prime fasi di emergenza. Specialmente in Europa, sono diventati un modo per tenere i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati al di fuori del continente e per raggiungere determinati obiettivi politici. Per fortuna, oggi è assunto da tutte le agenzie umanitarie che la risposta non sono campi, ma lavorare per l’integrazione urbana dei rifugiati. Nella linea di ricerca che dirigo Post-emergency Community Resilience all’UIC, stiamo lavorando su metodologie e politiche per raggiungere, con parametri sociali e fisici, l’integrazione urbana dei migranti nelle città. In particolare, l’importanza della selezione dei siti per gli alloggi dei migranti al fine di promuovere l’integrazione sociale nelle città europee.

6 – Uno dei suoi ultimi lavori “From metropolitan rivers to civic corridors” analizza come canali fluviali, se utilizzati come corridoi urbani, possono iniziare un fenomeno di ridefinizione e reabilitazione del contesto urbano; quale sarà il loro ruolo nella città del futuro e come cambierà il nostro rapporto con l’acqua nei prossimi anni?

Questo lavoro, sviluppato nel gruppo di ricerca UIC, guidato dal Professor. Pere Vall, si basa sulla convinzione che gli elementi ecologici come i fiumi, ed il recupero centrato sulle persone, vadano di pari passo. Il nostro rapporto con i fattori ecologici deve essere potenziato in qualsiasi trasformazione urbana e, specialmente, quando si tratta di modelli di sviluppo. La collaborazione con ecologisti, geografi ed azioni guidate dalla comunità, deve essere inclusa nel nostro lavoro, così come un approccio transcalare (dal territorio ai quartieri), al fine di mantenere e rigenerare le griglie ecologiche esistenti (corsi d’acqua, spazi verdi e aperti, ecc.) costruendo sulla loro resilienza e sostenibilità.

7 – Nell’ultimo periodo abbiamo chiarito che dobbiamo ridefinire la nostra relazione con l’ambiente naturale. Come dovremo ridefinirla secondo lei?

Le città sono all’avanguardia nell’adattamento ai cambiamenti climatici e nella resilienza, pertanto, in qualità di architetti/urbanisti, dobbiamo studiare come trasferire i sistemi di conoscenza urbana specifici attualmente esistenti, al fine di allinearli alle diverse esigenze della società, e aprire nuovi modi per riprogettare come i sistemi urbani percepiscono, anticipano, si adattano e imparano dagli eventi meteorologici estremi, dalla migrazione forzata e dalla rapida urbanizzazione. In questo senso, attraverso il Master di International Cooperation Sustaianble Emergency Architecture, che dirigo alla UIC, stiamo esplorando metodologie di insegnamento e generando ri-ricerca sulla stretta relazione che i cambiamenti dell’ambiente naturale hanno sugli interventi e lo sviluppo della nostra pratica.

Tradotto in italiano da Simone Perilli.