“Lo stile gioca nell’architettura un ruolo particolarissimo che nelle altre arti non ha. Nelle altre arti lo stile dipende semplicemente dall’artista, per sé davanti a sé, ma nell’architettura questo non può accadere, l’architetto ha un rapporto con il suo mestiere diverso da quello degli altri artisti poiché l’architettura non è un’arte esclusivamente personale ma un’arte collettiva, al servizio della società… Il capriccio in architettura non deve esistere” 1
Nel nostro tempo si sente spesso discutere di tematiche legate ai termini di stile e tendenza, ma cosa sono questi se non un groviglio di principi che definiscono una dottrina comune?!
Se contestualizzassimo il termine nell’ambito dell’architettura prontamente inizieremmo a pensare alla sua storia, ai vari stili architettonici che si sono susseguiti dall’inizio dei tempi fino al secolo scorso.
Quando si tratta di definire lo stile del secolo a noi contemporaneo azzardiamo definizioni non prive di incertezze.
Stiamo forse affrontando una profonda crisi identitaria? O parlare di stili, paradigmi rigidi, che ci piegherebbero ad una serie di principi formali è ormai un concetto obsoleto?
Prima di indagare la questione dello stile, o non-stile, contemporaneo penso sia importante fare una precisazione per scindere tale definizione dalla questione estetica poiché le due realtà non sono in contrasto.
Trattandosi infatti di entità distinte che lavorano su piani diversi, la mancata definizione della prima non coincide necessariamente con la negazione della seconda.
Lo stile in architettura costituisce delle regole compositive, degli standard qualitativi e funzionali. Un esempio celeberrimo sono i Cinque pilastri dell’architettura di Le Corbusier, definiti nella speranza di produrre un paradigma, un metodo applicabile in serie per fare della buona architettura.
Qualsiasi corrente architettonica, che a posteriori sarà etichettata con un nome che ne legittimerà l’esistenza, non è che un tentativo di ricerca metodologica finalizzata ad affrontare problemi dell’abitare; che siano essi costruttivi, urbanistici, energetici o semplicemente estetici…esso quindi nasce in un secondo momento come reazione ad una necessità.
L’architettura, così come la definì Vitruvio, è un perfetto equilibrio di Firmitas, Utilitas e Venustas2. Principi di solidità (quindi durata), utilità e bellezza.
Il quesito mi sorge spontaneo: le architetture di oggi rispettano ancora questi criteri o la definizione precedente risulta ormai superata?
L’architettura prima della sua componente artistica, che ne definisce i connotati estetici, ha una componente funzionale che necessariamente deve essere preservata e perseguita durante l’intero processo progettuale. Basti pensare all’archetipo della casa: la Capanna Primitiva che nasce dal bisogno umano di proteggersi costruendo un rifugio.
Un tempo la relazione tra tipologia e funzione, tra immagine e scopo, era facilmente intuibile, le due parti legate da una stretta correlazione, inscindibili e congiunte, oggi questo rapporto è in discussione.
In architettura un termine ricorrente è sempre stato “composizione” ovvero “mettere insieme”, “unione di elementi per produrre qualcosa di nuovo”.
La composizione architettonica, tematica ancora attuale e largamente dibattuta nelle aule delle università, sembra essersi ridotta ad una mera astrazione nella pratica odierna, oscurata dai nuovi metodi progettuali.
L’avvento della modellazione tridimensionale come ausilio alla progettazione ha generato una serie di eventi a cascata portando ad un nuovo approccio caratterizzato da una maggiore libertà e dal superamento definitivo degli ordini architettonici, già surclassati nel periodo novecentesco.
L’architettura di oggi è Parametrica, basata su una serie di regole matematiche, algoritmi che legano tra loro gli elementi tridimensionali e rendono il progettista libero di sfogare la propria creatività plagiando i problemi costruttivi all’estetica.
Razionalismo ed organicismo si fondono in un unicum senza che nessuna delle due correnti sia riconoscibile.
Il fenomeno delle Archistar, la volontà di stupire con costruzioni spettacolari, autoreferenziali, decontestualizzate ed avveniristiche che in alcuni casi negano il concetto stesso di bello… sono state supportate dall’ausilio di queste nuove tecnologie e sembrano essere solo alcune delle ragioni alla base della crisi stilistica in cui ci troviamo immersi, se come crisi la gradiamo definire.
Potremmo interpretare questo stato delle cose come una sperimentazione, senza demonizzarla, come accade quando ci si trova ad affrontare qualcosa che non si comprende, non è altro che un tentativo di esprimere l’essenza della nostra epoca.
L’architettura è il riflesso della società che la genera, oggi viviamo in un periodo di impetuosa trasformazione, tanto incalzante da vincerci e distanziarci, superandoci senza permetterci la decodificazione di ciò che accade, intorno e dentro di noi.
Il declino dello “stile architettonico” affonda le proprie radici in qualcosa di più profondo, consolidato nella imprescindibile investigazione dell’identità umana. Questa considerazione non fa che mettere in risalto la mancanza di unità d’intenti, a livello artistico-architettonico, indice di profonda crisi connaturata nell’uomo contemporaneo. Forse siamo giunti ad un punto in cui è arduo descriversi in modo univoco e razionale.
Semplificando il problema potremmo lasciare ai posteri l’onere di definire lo stile del XXI Secolo poiché essendo parte integrante di questo processo di cambiamento non ci è possibile coglierlo nella sua interezza e complessità.
Potrebbe aver senso invece, parlare di intenti più che di stili, di obiettivi da perseguire nella progettazione legati ad una riflessione sul ruolo dell’architettura nei luoghi della quotidianità.
Senza soffermarci su temi ai quali stiamo timidamente approcciandoci quali la sostenibilità ambientale, energetica, il riuso, la limitazione del consumo di suolo… il nodo della questione dovrebbe essere di riportare al centro dell’attenzione il bisogno umano e sociale a prescindere dalla ricerca per uno stile univoco legato ad un’immagine unitaria. Il rinnovamento, oggi, non può limitarsi ad una questione di forma.
In un contesto di urbanizzazione, di città già costruite, sature, decadenti… Trovare soluzione ai problemi è di per sé un atto creativo.
All’architetto spetta l’arduo incarico di legare passato e presente con interventi che si incastrino nella storia e siano portatori di una trasformazione attiva, proponendo il nuovo nel rispetto del vecchio. Ci sono casi esemplari di architettura che si innesta nel costruito per contrasto, con uno stile che non sempre siamo in grado di definire, ma che genera una scintilla di rinnovamento.
Forse verremo definiti come cinici autoreferenziali, ma il problema non è la mancanza di una corrente stilistica riconoscibile quanto piuttosto l’incapacità di trovare la giusta misura, la giusta grazia con interventi che non snaturino il luogo negando ogni rapporto ma che generino una tensione e un rapporto dialettico con il contesto, la storia e l’uomo.
Eccedere nel capriccio non fa che moltiplicare i problemi senza risolverli, anzi decentrandoli, creando situazioni di confusione distributiva e sature di architetture tanto avveniristiche quanto sterili che non migliorano realmente il luogo.
I poli attrattivi sono necessari e positivi ma un’intera città costituita da landmark non è una città, è un insieme di architetture dissonanti, comparabile ad un’esposizione museale senza alcun nesso logico e relazionale tra le opere d’arte, senza gerarchie in una negazione dell’armonia d’insieme.
1 José Ortega y Gasset, La felicità e la tecnica, sullo stile in Architettura, in Mediazioni sulla felicità, Sugarco Edizioni, Gallarate (VA),1994, pp. 166-170.
2 Marco Virtuvio Pollione, De Architettura, 80- 15 a.C.
– Antonio Crobe, Il nuovo e il vecchio. Riflessioni sul dibattito attuale per un possibile dialogo (tutto italiano), inarCASSA Trimestrale della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti, Roma, 2011.