Matteo Orlandi, nato a Genova nel 1977, completa la formazione in architettura tra Genova e Vienna dove inizia l’apprendistato in diversi studi seguendo progetti in Europa e Africa fino ad iniziare nel 2008 una lunga collaborazione con il Renzo Piano Building Workshop. Svolge attività didattica, di ricerca e divulgazione presso le università di Genova, Vienna, Shenzhen, Shanghai. Attualmente è titolare dello studio MOA (Matteo Orlandi Architetto) a Genova.
Ho chiesto a Matteo Orlandi cosa pensa del comportamento generale dell’Architettura verso il futuro, approfittando dei contenuti che abbiamo estrapolato con l’esperienza del precedente Numero di AGORÀ.
Dopo il Numero 04 di AGORÀ magazine – durante il quale ci siamo posti la questione dello Stile architettonico che muore, lasciando il posto al “Metodo” – ci siamo chiesti come il futuro potesse influenzare la forma degli edifici quando si fa un progetto. Questa forma, che i più confondono con l’estetica, deriva non certo dal mero tentativo di creare bellezza, ma piuttosto da quello di creare un corpo capace di incarnare dentro di se i molteplici livelli di concetto, funzione e partecipazione che uno spazio complesso come quello urbano possa accogliere nei suoi sistemi.
Questa è AGORÀ magazine Numero 05 e per il suo editoriale abbiamo voluto concentrarci sul concetto di “Smart City”. Vogliamo parlare di Smart City perché non si tratta semplicemente di tecnologia applicata all’Architettura, ma di come l’aspetto tecnologico si integra con le scelte progettuali e formali future che faremo per il nostro tessuto urbano. La smart city corre per le strade, entra nei nostri uffici e nelle nostre case, cambia la tipologia degli spazi che abitiamo durante la nostra esistenza. Essa ha l’obbiettivo di scandire un tempo, un’accessibilità ed un’efficienza diversi per i nostri processi di vita, semplici e complessi, nella triade intrattenimento-lavoro-trasporto.
Nell’immaginario comune il futuro delle città splende lungo vetrate trasparenti e strutture plastiche o metalliche bianche, leggere e sospese. Vola ad alta quota grazie a torri e infrastrutture accattivanti e si intreccia con i rami e le radici di macchie verdi perfettamente integrate con i binari dei treni ad alta velocità o con scale mobili sempre più lunghe, creando il volto di una società sana, pulita, felice ed invincibile.
Ma a quale prezzo?
1 – Cos’è una Smart City?
La Smart City è una città in grado di risolvere e/o prevenire i problemi dei cittadini e dell’ambiente urbano grazie all’utilizzo e alla sinergia fra tutte le ultime tecnologie a disposizione, in particolare quelle legate alla computazione e all’applicazione dei dati in tempo reale e alla gestione virtuosa dell’energia. Una città del futuro, intuitiva, reattiva e adattiva quasi come un essere vivente.
Considerando che si parla di Smart City ormai da qualche decennio, possiamo dire che ogni ambito di ricerca ha trovato un suo potenziale campo applicativo, più o meno efficace che sia. Per lo storytelling politico sembra essere senza dubbio la panacea di ogni male “cittadino” legato alla crescita, all’organizzazione e alla trasformazione urbana.
2 – L’idea di Smart City, che è citata anche ufficialmente nelle direttive europee, sembra essere l’unica strada possibile per la crescita e la trasformazione delle città contemporanee in tutto il mondo. Perché?
All’inizio del secolo scorso il 10% della popolazione mondiale viveva in città, oggi è più del 50%; alla fine del secolo, se questa rimane la tendenza, probabilmente tutti vivremo in una città.
Per un italiano che viaggia poco e quasi esclusivamente nel suo paese questi dati possono avere oggi poca rilevanza visto che tutte le nostre micro e macro aree urbane, con uniche eccezioni come Milano e la Lombardia o il Trentino Alto Adige, sembrano aver raggiunto la loro dimensione massima dopo l’ultima grande e controversa fase espansiva finita negli anni ‘70.
La popolazione italiana non aumenta più, è un dato di fatto, piuttosto decresce e gli unici incrementi demografici, numericamente poco rilevanti e mal gestiti, sono imputabili quasi esclusivamente a fenomeni di immigrazione. Basti pensare che la mia città, Genova, potrebbe arrivare a perdere più di 100.000 abitanti nel 2036 (ora sono circa 580.000).
Ci sono però larghe e influenti parti del mondo in cui questa crescita è tangibile, luoghi in cui le città stanno vivendo trasformazioni epocali e affronteranno nei prossimi anni fasi di espansione e crescita demografica molto importanti. Nuovi quartieri e intere nuove città stanno nascendo anche in questo momento grazie e insieme ad immensi investimenti economici. Una tendenza ormai decennale in alcune aree del pianeta.
Ci si può domandare se questa prospettiva sia quella più auspicabile e indagarne i motivi politici, economici e ambientali, cause molto complesse da identificare e prevenire, ma anche controverse; è quello che fanno le migliori università del mondo anche se troppo spesso inascoltate. Questo però è quello che sta già accadendo e migliaia di architetti in tutto il mondo ne sono in qualche modo coinvolti, miliardi di dollari di investimenti stanno supportando questa tendenza e non si può pensare solo che sia “un male” e sbattere la porta, come fanno alcuni.
Penso a Singapore, Islamabad, Abu Dhabi, tutte le città cinesi, le città africane accoglieranno 950 milioni di abitanti in più, ma anche alcune città europee come Graz cresceranno seppur in maniera molto più graduale.
3 – Ma chi e come progettare queste nuove città? Esistono validi modelli da seguire? Con quali regole? Esiste un modo giusto e uno sbagliato? Cosa possono fare gli architetti per essere protagonisti di questi processi?
Sicuramente possiamo dire che gli architetti non sono più “influencer” da un bel po’. Qualcuno ci prova e ottiene risultati incredibili, diventa “cliccatissimo” e copiatissimo soprattutto dagli studenti di architettura e riesce ad amplificare l’immagine dei suoi lavori in tutto il mondo, penso per esempio a BIG, forse anche interessante nel merito costruttivo e spaziale, non soltanto in quello comunicativo, ma comunque autoreferenziale. E’ finita l’epoca in cui Hausmann, Le Corbusier, Cerdà e molti altri personaggi mitici avevano in mano le chiavi delle città ed il futuro di milioni di persone in un tratto di matita. Teniamo presente che l’ultimo CIAM è del 1959. Certo la politica ha sempre avuto un ruolo fondamentale fin da quando gli uomini si sono uniti in comunità, ma i gradi di libertà dei progettisti e le possibili strade da percorrere erano plurime, anche quelle più sbagliate ovviamente.
L’urbanistica delle nuove città oggi segue altri parametri che non sono quelli del secolo scorso, parametri che però non sono ben chiari e codificati, sicuramente sono sempre meno in mano agli urbanisti. Sono gli amministratori invece, che in base alle previsioni dei flussi economici e sempre di più a seguito di un consenso più o meno orientato, decidono in primis le infrastrutture; la città con la sua “forma e sostanza” e le sue dinamiche ne sono una conseguenza più o meno casuale ed efficace a seconda dei casi e dei professionisti coinvolti. Anche Le Corbusier in un certo senso concepiva la città come un’infrastruttura e forse proprio per questo sento sempre più spesso una rilettura critica rispetto alle conseguenze sulle nostre città di alcune scelte del movimento moderno. Ma Corbù era un genio, e l’eredità del movimento moderno è argomento interessante anche se puramente accademico.
Oggi i flussi economici, le infrastrutture ed il grande mantra dell’ambiente sono i pilastri su cui si basano le attuali strategie evolutive delle città. E visto che viviamo nell’epoca della “tecnica” come ci ricorda il buon Galimberti, cioè quella in cui si tende a raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi e visto che confondiamo ormai spesso la tecnica con la tecnologia, proprio il mondo variegato della Smart City diventa per gli amministratori e i mezzi di comunicazione un riferimento facile, quasi diretto, in alcuni casi obbligato. Un “pacchetto completo” potenzialmente in grado di rispondere contemporaneamente a queste necessità e ottenere il massimo del consenso possibile includendo anche la tanto cara partecipazione diretta dei cittadini allo sviluppo della città: insomma, si faccia avanti chi ha il coraggio di dichiararsi contrario alle Smart City e ci spieghi in maniera convincente il perché.
4 – E allora l’Architettura? Quella con la A maiuscola, quella che stimola i sensi e armonizza i comportamenti, quella che apre squarci su un mondo migliore, quella senza spazio e senza tempo, quella sempre giusta, che ci fa sentire bene, quella lì è inclusa nel pacchetto Smart City?
L’Architettura arriva qualche volta e di solito alla fine del processo decisionale. Le briciole insomma. Gli architetti vengono dopo, nel mentre riempiono i vuoti, stanno in disparte per fiutare l’affare migliore, forniscono immagini stimolanti e rassicuranti alla narrazione politica, se va bene costruiscono un quartiere “green” o un grattacielo dove poi tecnici specializzati infilano infrastrutture sempre più invisibili capaci di raccogliere dati ambientali in tempo reale ed automatizzare la vita degli edifici con quella degli abitanti, con quella della città, con quella del pianeta.
Esistono eccezioni ovviamente: lo storico studio viennese Coop Himmelblau è sempre stato un passo avanti e da anni ormai studia interi quartieri capaci di generare energia, altro grande tema. Molti esempi isolati e fortunati che in alcuni casi diventano fenomeni mediatici, ma la fase è ancora quella della sperimentazione.
Anche il mondo accademico potrebbe provare a fare chiarezza in questo nuovo mondo smart, stimolando nuovi percorsi, creando tendenze e talvolta prendendo posizioni apparentemente controcorrente. Insieme ovviamente agli ordini professionali e alle associazioni internazionali troppo spesso autoreferenziali.
L’Architettura dovrebbe essere l’unico attore accreditato in grado di scegliere, armonizzare ed integrare componenti e materiali altrimenti dissociati, e trasformarli nel miglior luogo possibile per l’uomo in quella parte di mondo, anche nel 2050 e oltre, anche con le ultime tecnologie a disposizione. Cercare quel nuovo equilibrio fra le parti che potrebbe creare un nuovo linguaggio e far ripartire la storia dell’architettura dalle nuove città da decine di milioni di abitanti al rudere di campagna.
5 – Smart City anche in Italia?
L’altro tipo di Smart City possibile ci riguarda più da vicino visto che se ne parla molto anche in Italia, il paese dove ogni città piccola o grande che sia è orgogliosamente diversa dall’altra e vuole avere la patente di “smart”. Riguarda non il nuovo ma ciò che già esiste, quel mix unico di eredità storica e periferie trascurate il tutto legato da una bella dose di provincia: quelle infinite e odiate villette nate a caso dopo che leggi di favore hanno trasformato terreni agricoli in edificabili e che talvolta sono l’unica cosa che ci fa capire di essere in Italia.
Da un certo punto di vista anche questo tessuto può essere considerato quasi nuovo perché potenzialmente ancora inespresso, è lì e resterà per molto tempo così: quindi invece di occupare i pochi spazi vuoti rimasti, perché non osservare e studiare quello che già c’è e che aspetta solo di essere trasformato. Anche in questo caso l’unica linea guida ufficiale che abbiamo, sempre più legittimata dall’opinione pubblica e dagli amministratori, è l’insieme disomogeneo dei pezzi del catalogo della sostenibilità di cui parla anche Luca Molinari nell’intervista contenuta nel Numero 04 di AGORÀ magazine e che promettono miracoli con pochi pannelli fotovoltaici.
A questo punto però ci si scontra con il solito quesito: quanto e come possiamo confrontarci con quello che già esiste, la burocrazia, le soprintendenze, le comunità che tendono soprattutto in periodi di scarsità, di risorse ed investimenti ad essere conservative e nostalgiche.
Se confrontiamo la libertà espressiva attuale di un architetto italiano con un tedesco o uno spagnolo per esempio, quando si parla di costruire sul costruito sappiamo che la differenza è in generale notevole. Ma non dobbiamo dimenticare che in questo strano paese se non ci fosse stata una soprintendenza conservatrice troppi sarebbero stati i guai causati dalla sregolata e frenetica ricostruzione del dopoguerra, che ha sfruttato concessioni spesso incredibili.
Ora però credo sia giunto il momento di ripensare completamente il rapporto con le città in cui già viviamo e il mondo contemporaneo senza alterare profondamente assetti urbani consolidati su pregressi modelli socio-culturali. Del resto, è esattamente quello che hanno sempre fatto i nostri antenati anche se non lo consideriamo un confronto importante: hanno creato generazione dopo generazione e per secoli, quegli incredibili corpi mutanti che sono le nostre città storiche, dove non esistono purismi, dove non ci sono integrità, dove tutto è integrazione, riutilizzo, rilettura. Rimpadronirsi della storia insomma, con grande rispetto ma senza paura.
Per le vecchie e diversificate città europee e in particolare per quelle italiane il prossimo passo sarà uniformare e migliorare la qualità della vita e in questo forse ci può essere di fondamentale aiuto anche il brand “Smart City”, con le sue indiscutibili potenzialità.
6 – Un consiglio da dare ai giovani architetti e qualche libro da leggere per la nostra formazione?
In poche parole: “Attenti ai consigli e a chi ve li dà, curiosità senza fine e soprattutto trovate il modo per parlare di architettura con tutti, anche vostra madre.
Consiglio lavorativo: imparate a conoscere i vostri limiti e sfruttateli. Se pensate di non averli, buona fortuna.
Per quanto riguarda i libri, consiglierei di iscriversi alle newsletter di quanti più siti il tempo a disposizione e la voglia permettono una lettura adeguata, da ArchReview a Dezeen, Artribune, etc..
Libri da e per architetti: classici a parte i primi che mi vengono in mente sono la biografia di FLW, “WalkSkapes” di Francesco Careri, “Delirious New York”, i libri di Gilles Clement e del mitico De Carlo.
Libri altri: ultimamente mi sono appassionato ai libri di Emmanuelle Carrere, ora sto leggendo “M. Il figlio del secolo” di Scurati e riprendo un po’ sempre in mano gli “Scritti Corsari” di Pasolini, aprendolo a caso.
7 – Come e quando hai deciso di diventare architetto?
Mi sono iscritto ad Architettura come seconda scelta, volevo fare Archeologia. Amo la storia dell’Uomo e in particolare quella dei suoi manufatti, le “rovine” mi hanno sempre affascinato, ne immagino il loro aspetto originario. A diciotto anni, un po’ confuso e nato in periferia da famiglia medio-borghese, ho optato per un percorso apparentemente più conveniente dal punto di vista lavorativo.
Infine, al terzo anno, le lezioni di Enrico Bona e Brunetto De Battè a Genova mi hanno folgorato. Quella scintilla è stata poi consolidata da un po’ di esperienza extra italiana.