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Eterotopia a Berlino: Tempelhofer Feld

Analizzare il concetto Foucaultiano di eterotopia, alla ricerca di una risposta alla domanda “How will we live together?”, significa indagare nuovi scorci di socialità e i relativi spazi urbani. Non è sufficiente riconoscerne la presenza: le eterotopie possono essere importanti meccanismi per ripensare radicalmente la città, per scomporla, re-immaginarla e ri-montarla. Tempelhofer Feld, di Raumlabor, è un’eterotopia urbana perché compie tali processi, mettendo in dubbio l’idea stessa di città costruita, generando identità e appropriazione del luogo, spesso con strumenti non convenzionali all’architettura.

Un’eterotopia è letteralmente uno spazio altro: non utopico, bensì reale e tangibile. Una produzione spontanea della civiltà. Al suo interno le dinamiche sociali e spaziali sono radicalmente differenti. Ne sono esempi le biblioteche, i cimiteri, ma anche prigioni, collegi, treni e navi.

Michel Foucault fu il primo a proporre tale concetto quale momento evidente della nostra esperienza, tangibile e concreto. Del resto, il filosofo francese è tutt’altro che lontano da quei temi comuni all’architettura come spazio, tempo o funzione. Nell’ambiente intellettuale italiano l’opera foucaultiana viene ben recepita e assimilata, meno in campo architettonico. Uno dei pochi sforzi organici di applicare alcuni dei ragionamenti del filosofo francese all’architettura consiste nel “Dispositivo Foucault”¹, atti di un convegno del 1976 che vede coinvolti anche Manfredo Tafuri e George Teyssot; lo scopo del convegno era di realizzare una storia “spaziale” della società. La nozione di eterotopia viene infine assimilata con una forte accezione poetica: un memorandum di alcuni dei valori propri dell’architettura. Tuttavia, in questo articolo non si vuole restituire un’immagine poetica dello spazio eterotipico, il cui fascino è di immediata evidenza, quanto ricercare una valenza poietica: fare dell’eterotopia un’agenda per il futuro dell’architettura, della città e della socialità.

Tempelhofer_Feld-Hilberseimer

© Raumlaborberlin, Collage, Hilberseimer a Tempelhofer Feld, Berlin.

Italo Calvino, in questa direzione, ci può trasmettere un’importante nozione. Nel racconto “Il conte di Montecristo”², Calvino ragiona sui concetti di tempo, spazio e coscienza. È solo tramite un allineamento di questi tre parametri che Edmondo Dantes riuscirà a scappare dal Castello d’If. Nel farlo, inconsciamente viene ricreata una sorta di “eterotopia immaginaria” che ricalca molti dei caratteri individuati da Foucault. Nella cella del marinaio si abbandona la piena rispondenza alle leggi del tempo e dello spazio, per farne un luogo della molteplicità delle cose possibili. Assistiamo ad una disgregazione della fisicità dello spazio che diviene una produzione culturale dell’istituzione che impone una condizione di segregazione e di asocialità. In uno scenario del genere, l’uomo Calviniano, cerca di rimediare attraverso il pensiero, tanto razionale quanto illogico, ipertrofico, ma sempre più preciso e originale. L’esito è drastico: lo spazio prima di essere fisico risulta essere cognitivo, in un processo infinito di appropriazione della materia locativa, elaborazione di esso e trasformazione. Così Dantes giunge alla conclusione:

“Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera -e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo; ma almeno avremmo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove- o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui –e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per trovarla”.

Italo Calvino non ci sta semplicemente sottoponendo una questione gnoseologica, quanto una lezione sul nostro modo di immaginare il futuro, e con esso le nostre modalità di relazione con lo spazio che ci circonda.

Ma quali sono le eterotopie nella nostra città contemporanea? Sicuramente a tale quesito rispondono molti dei luoghi individuati dallo stesso Foucault, tuttavia mi concentrerò su un esempio in grado di restituire un’accurata immagine della potenzialità dell’eterotopia nel tessuto sociale: Tempelhofer Feld a Berlino.

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© Raumlaborberlin, Pioneering verde a Tempelhofer Feld, Berlin.

Ovviamente per descrivere il progetto occorre prima contestualizzare geograficamente e storicamente: durante gli anni della riunificazione attorno alla città di Berlino si sviluppò un forte dibattito sulla direzione architettonica che la città avrebbe dovuto seguire, le linee di pensiero erano due: Hans Stimmann proponeva la ricostruzione del tessuto prussiano abolendo gli eccessi decostruttivisti, di fatto creando una città quanto più “normale” possibile. A tale visione si oppongono personaggi di calibro internazionale, tra cui, Rem Koolhaas, con il suo modello di città come arcipelago³, progetto che vede nell’essere “vuoto” della capitale tedesca, la sua massima potenzialità, non per ricostruire una città come Stimmann, ma per dare ai suoi abitanti dei luoghi di vita: “Dove c’è architettura null’altro è possibile”.⁴ Parallelamente a questo dibattito, i suoi abitanti si stanno appropriando della città in maniera differente.

I club sono espressione di una nascente cultura underground, che radicalizzati sfociano nel fenomeno dello squatting: occupazione illegale di terreni o edifici per realizzarne club notturni, discoteche o anche spazi espositivi. Il fenomeno che si crea è quello di un’appropriazione diretta della città, di “attivismo architettonico”. La città è una tela bianca per i suoi abitanti e questi spazi sono delle vere e proprie eterotopie, produzioni di una cultura urbana, svincolati dalla città esistente. Tuttavia, le dinamiche di formazione sono differenti da quelle Foucaultiane, ma ugualmente interessanti: pur essendo a tutti gli effetti uno spazio di contestazione, non è una lenta produzione della civiltà quanto una rottura al suo interno. Rottura che raggiunge il suo apice nell’azione illegale dell’occupazione: sono gli abitanti che reclamano il diritto alla città. Il processo è simile a quello che Carlo Ratti ha definito “Urban hacking”.

Tempelhofer_Feld-Sport

© Giuliano Coppola, Sport a Tempelhofer Feld, Berlin.

L’aeroporto di Tempelhof è situato in una zona centrale di Berlino, tra i quartieri di Neukölln e Schöneberg, costruito nel 1927, già dai primi anni dello scorso decennio risultava inadatto alle esigenze odierne. Con i suoi ottanta anni di attività è stato uno dei principali aeroporti militari, sede di operazioni importanti come il ponte aereo del 48-49. Chiuso nell’ottobre del 2008, viene affidata a Raumlabor l’elaborazione di un masterplan per quest’area. I progettisti in tale spazio, anomalo per condizioni e dimensioni, adottano una visione radicale.

“Per Raumlabor, progettare la città significa innanzitutto ridefinire, strutturare e guidare i processi della sua trasformazione”.

Insomma, il compito dell’architettura non è semplicemente progettare uno spazio, quanto studiare ed investigare modalità di appropriazione e relazione. In tale ottica risultava essenziale destinare gran parte del suolo ad uso pubblico. Tuttavia, la fruibilità di uno spazio è condizione necessaria, ma non sufficiente ad un elevato grado di appropriazione dello stesso. Per tale motivo Raumlabor lanciò una call online, dal nome “What could happen now?”, per individuare idee, funzioni e potenziali attori: una vera e propria “indagine di mercato” sulla cui base bilanciare il progetto. Una delle prime strategie è stata quella dei pioneering fields, ovvero di cedere temporaneamente a chiunque ne facesse richiesta, con una proposta valida, dei piccoli lotti del parco. Ciò ha permesso a Raumlabor ma anche ai cittadini di comprendere le potenzialità di un simile spazio. Velocemente Tempelhofer Feld entra nell’immaginario collettivo berlinese. La forza di questo parco urbano sta nelle sue dimensioni, oltre 300 ettari di prato, mai interrotto da alberi o altri elementi che ne potrebbero compromettere la continuità del cielo:

“Qui si può vedere l’orizzonte |…| non ci sono case, non ci sono alberi e quindi la luce, l’aria, i suoni sono completamente diversi da ogni altra parte della città”.

Anche la scelta di lasciare invariate le strutture aeroportuali, così come le piste e la segnaletica sull’asfalto contribuisce a rafforzare l’identità del luogo.

Tempelhofer_Feld-Temporary structure

© Raumlaborberlin, Struttura temporanea nel Feld, Berlin.

Tempelhofer Feld è uno spazio altro della città, generato non tanto dal gesto progettuale di Raumlabor (appunto minimo, lasciando tutti gli elementi “as found”), quanto dall’appropriazione del parco da parte dei cittadini, che lo sfruttano in mille modi diversi, come luogo per praticare sport, convenzionali o meno, per incontri, privati e pubblici, eventi culturali, mercati, giardinaggio, installazioni artistiche, proiezioni all’aperto, etc… spesso con l’ausilio di strutture temporanee. Ovviamente il processo non è stato lineare: in un primo momento ciò non sembrava avvenire e stesso Raumlabor, che aveva già ufficialmente concluso l’incarico, decide di lanciare dei plug-in: attività ed eventi specifici per il Feld in grado di dargli una vocazione urbana se non internazionale. L’importanza dei numerosi progetti temporanei è il loro essere “in grado di suggerire nuove idee di come la città potrebbe essere”⁷: in questa citazione è evidente tutta la carica eterotopica di Tempelhofer Feld. Dobbiamo costruire, come il calviniano Edmondo Dantes i nostri castelli d’if: le nostre città che stanno diventando delle prigioni, luoghi di segregazione e disparità per poi smontarli, metterli in dubbio, ricomporli e infine sovrapporli con quelli esistenti, vedere dove non c’è coincidenza, ovvero dove la città odierna differisce da quella ideale e agire di conseguenza. Essenziale in questo percorso che l’architettura e l’urbanistica non siano impositive ed esclusive, ma che agiscano come catalizzatori per l’appropriazione della città da parte dei suoi abitanti. Tempelhofer Feld ci dimostra come la prima domanda da porci non sia “How will we live together?” ma “How we want to live together?”.

Copertina: © Raumlaborberlin, Elaborato di progetto.

¹ Massimo Cacciari, Francesco Rella, Manfredo Tafuri, George Teyssot, Il dispositivo Foucalt, CLUVA, Venezia.
² Italo Calvino, Il conte di Montecristo, in Ti con zero, Einaudi Torino, 1967.
³ Oswald Ungers , Rem Koolhaas, A manifesto, 1977, in :The City in the City – Berlin: A Green Archipelago, (a cura di) Florian Hertweck, Sebastien Marot, 2013.
⁴ Rem Koolhaas, Immaginare il nulla, in OMA. Rem Koolhaas. Architetture 1970-1990, (a cura di) Jacques Lucan, Electa, 1991.
⁵ Nicola Russi, Background, Quodlibet studio, 2019, p 92.
⁶ Benjamin Foerster-Baldenius, intervista contenuta in Background, p. 102.
⁷ ivi, p. 105.
Sito web Raumlabor, Progetto di Tempelhofer www.raumlabor.net

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He was born in Naples, where he obtained the classical European diploma, which allowed him to have numerous experiences of cultural exchange, in France, England and Ireland. In 2018 he began his studies in Architectural Design at the Polytechnic of Milan. His main interests, in addition to architecture and art, are photography, reading, cinematography and philosophy. Lately he has been exploring the fields of psychology and sociology. He is attracted to the study and analysis of apparently contradictory situations, in any discipline, from historiography to economics.
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