Parlare di identità non è mai semplice, ancor di meno in architettura. Sicuramente spunti e prospettive interessanti le possono fornire le nuove generazioni di architetti.
AMAA nasce nel 2012, dalla collaborazione tra Marcello Galiotto e Alessandra Rampazzo, entrambi classe ’86 e con una lunga carriera accademica e professionale alle spalle, a cui vengono corrisposti numerosi premi e riconoscimenti, di cui l’ultimo, il Young Italian Architects, per lo studio ad Arzignano dove, oltre a Venezia, operano.
Nell’intervista abbiamo avuto modo di discutere svariati argomenti: dall’identità della professione dell’architetto in Italia, fino all’architettura stessa, nella sua accezione più contemporanea del non-finito, ma che nel caso di AMAA non risulta banalmente come uno stile o una moda quanto l’esito necessario di un processo culturale, che impone un costante confronto con l’esistente tramite la pratica del riuso.
1 – Il variare dell’identità e del ruolo dell’architetto genera, nel corso dei secoli, un cambiamento nell’evoluzione dell’architettura stessa. Oggi cosa significa essere architetti in Italia e quale è l’identità specifica di AMAA?
M.G. Oltre a questo credo sia opportuno chiedersi cosa significa essere giovani architetti in Italia. Su questo interrogativo continuo si basa, in fondo, la nostra professione. E ciò significa avere, dunque, delle occasioni che fino a pochi anni fa non esistevano; dimostrare dedizione, infinite energie da spendere, nonché una continua disponibilità verso il lavoro finanche una conoscenza diretta della materia concreta e del cantiere. La professione occupa interamente il nostro tempo e le nostre vite, votate a ideali che, nonostante spesso restino incompresi, nelle riuscite manifestazioni lasciano spazio all’appagamento e alla soddisfazione che ripaga delle ore di lavoro spese, della pazienza e della dedizione.
AMAA, Workshop, Arzignano, 2018.
Significa provare ad insegnare e trasmettere la propria passione a committenti e studenti ma soprattutto trarre da ogni situazione un insegnamento utile: imparare dalle maestranze, quelle ancora attive e legate alla tradizione e all’artigianalità, purtroppo sempre più rare oggigiorno.
Essere giovani architetti in Italia significa avere la freschezza di una visione dell’architetto in grado di investire nelle collaborazioni e nelle risorse derivate dal lavoro in team, riconoscendo proprio nel confronto lo strumento utile a comprendere i temi ed i problemi, a studiare e poi evolvere. E’ creare collettivi che operano sulla scia di ideali simili, pur restando entità autonome e “rivali”.
Si creano così le condizioni per un ambiente di condivisione, in cui ci si sente parte di un grande progetto, l’architettura, appunto.
E’ fare della curiosità il motore della propria crescita: leggere indistintamente e viaggiare (tornare a viaggiare) restano operazioni imprescindibili in tal senso.
Significa assaporare nella professione — e accettare — il sapore amaro della sconfitta e quello dolce della vittoria. Il mestiere dell’architetto coinvolge la quotidianità a tuttotondo e deve essere necessariamente una passione che coincide con una linea di pensiero ed un modo di essere: non una professione a scadenza.
Essere giovani architetti oggi significa infine mettersi in gioco e anche scrivere, cosa che purtroppo riusciamo a fare troppo poco, a cui invece dovremmo dedicare più spazio e importanza.
Tutto questo è AMAA.
A.R. Quello che facciamo ogni giorno e come lo facciamo rappresenta chi siamo, la nostra identità.
2 – Dato il vostro forte background accademico, che si accompagna anche ad un’importante esperienza professionale, pensate che in Italia ci sia una frattura tra professione e accademia?
M.G. Sì e no. Mi spiego. Ci siamo formati allo Iuav di Venezia e, qui, abbiamo avuto l’occasione di studiare con Massimo Carmassi, che ci ha trasmesso una grande passione per l’architettura e per la costruzione. Abbiamo però viaggiato spesso e conosciuto Facoltà e Università diverse. La presenza limitata di architetti che hanno costruito poco in ambito accademico credo sia una realtà che sta cambiando. Al Politecnico di Milano, ad esempio, ci sono diverse posizioni interessanti che coinvolgono come visiting professor architetti che esercitano la libera professione: alcune cattedre sono state affidate a nomi noti quali Sejima e Souto de Moura. Ad oggi, io sono collaboratore alla didattica con Nikos Ktenàs, che lavora come architetto ad Atene. Lo stesso Iuav propone i WaVe, workshop intensivi estivi che offrono agli studenti l’opportunità di confrontarsi con professionisti provenienti da tutto il mondo. Ciò che sostengo è che, anche in Italia, si possano riconoscere approcci diversi in ciascuna delle università, pur restando ben lontani —anche per problematiche di tipo legislativo— da modelli che prediligono la professione quali la scuola portoghese o svizzera.
Comunque credo che l’interdisciplinarità e la formazione umanistica tipiche delle facoltà italiane diano una formazione ampia, che attinge dalla cultura e che la alimenta: questione fondamentale, questa, per il percorso di un architetto.
A.R. L’aspetto che sembra essere sottovalutato o lasciato ai margini è quello del cantiere, della costruzione e il conseguente contatto con quella materia capace di trasformare le idee dapprima rappresentate su carta. Per questo, momenti come il viaggio o l’esperienza di tirocinio dovrebbero costituire l’ossatura principale del background di un architetto. Ma anche in questo caso esistono università ed università. Bisognerebbe forse saper e poter scegliere in modo più consapevole.
3 – Una delle pratiche che più caratterizza la professione dell’architetto è la modellistica, della cui importanza Marcello ha esperito direttamente nello studio di Sou Fujimoto. Ci puoi raccontare la tua esperienza in Giappone in relazione a questo tema? Che ruolo ricoprono i modelli nel vostro percorso progettuale?
M.G. I modelli sono uno strumento importante nel nostro lavoro. E’ faticoso comprendere la scala di un progetto o di un intervento con il solo utilizzo del computer e della rappresentazione tridimensionale, specialmente se realizzato da altri (e non in prima persona). Costruiamo, quindi, numerosi modelli, utilizzando principalmente due scale: 1:500 (a volte 1:1.000, mai 1:200) per la scala urbana e 1:33 (scala più vicina alla modellistica) per i frammenti. Il modo di farli è vario e deriva da un’impronta appresa al primo anno di università durante il corso di Renato Rizzi combinata a tecniche e riflessioni propri degli studi giapponesi, in particolare quello di Sou Fujimoto.
Nell’unione di approcci così diversi abbiamo cercato di costruire una nostra autonoma identità. Crediamo —e speriamo— di essere sulla strada giusta.
A.R. Il modello costituisce inoltre un primo approccio allo studio del sito e alla conoscenza del territorio e della sua morfologia. Allo stesso tempo pone a diretto contatto con la materia. A tal proposito la predilezione per il cemento ci avvicina a un materiale che utilizziamo anche nelle realizzazioni, consentendo così di apprenderne le modalità costruttive, le proprietà, nonché le potenzialità.
L’uso del modello è dunque funzionale ad una duplice ricerca, quella più specifica sul progetto in questione ed una più ampia legata al linguaggio espressivo dei materiali che costituiscono l’ossatura portante delle riflessioni che conduciamo nella professione.
AMAA, Space within a space, Arzignano, 2018.
4 – Non nascondo che una delle personalità che mi è venuta alla mente per questo numero sull’identità è quella dell’architetta Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, candidata al premio Mies, ma che ha il suo studio in un paesino della Sicilia.
In effetti di analogie con la produzione di AMAA ce ne sono: oltre ad un linguaggio non-finito su cui ritorneremo, particolarmente interessante è la decisione di operare a partire da un contesto locale. Da dove deriva tale scelta? Quali, se ci sono, le complicazioni che ne derivano?
M.G. Riteniamo Maria Giuseppina Grasso Cannizzo un’architetta di straordinario interesse. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarla ormai più di dieci anni fa a Messina in occasione del seminario itinerante di progettazione Villard. Il tema del non-finito, per cui si riconosce una possibile vicinanza tra la sua opera ed il nostro approccio, crediamo non sia il risultato di una specifica volontà, ma piuttosto un momento che rappresenta parte del processo, che va individuato e possibilmente “fermato”, reso riconoscibile. Raggiungiamo la massima soddisfazione quando questa fase riesce a coincidere con la fine del lavoro, come di fatto è stato per la nuova sede di AMAA.
In questo progetto, infatti, l’architettura non necessita di orpelli per apparire in tutta la sua essenzialità e chiarezza.
A.R. Il rapporto con il territorio si traduce per noi anche con un forte legame con la tradizione. Una tradizione costruttiva che suggerisce le buone pratiche di un’architettura frutto della stratificazione del sapere e dei miglioramenti apportati nel corso di secoli di pratica. Riteniamo che sia importante guardare al contesto —e dunque alla tradizione— per coglierne gli spunti utili a suggerire quanto di innovativo il progetto può apportare.
Andare oltre ma con solide basi e con i piedi ben ancorati per terra: significa tenere in considerazione l’importanza nel progetto di spazi concepiti per l’uomo, a servizio dell’uomo nel tempo, e non fini a se stessi. L’architettura che produciamo lascia comunque testimonianza della nostra epoca.
M.G. Abbiamo deciso di aprire una seconda sede operativa tornando al mio paese natale perché riteniamo che in questi luoghi meno affollati si possa agire con meno frenesia e più qualità. Uno dei nostri nuovi edifici più significativi, ora in costruzione, è il frutto di una straordinaria collaborazione nata tra persone che hanno girato il mondo per poi tornare a fare qualcosa di importante nel loro paese natale. Speriamo che questo possa rappresentare per noi ciò che l’esperienza di Coira ha rappresentato per Peter Zumthor.
AMAA, Pleonastic is fantastic, Lonigo, 2020.
5 – Precedentemente accennavo in comparazione con l’opera di M.G.G. Cannizzo ad un linguaggio non-finito: la crisi del 2008 ha investito anche l’architettura, sempre più consapevole di non permettersi più l’eccessiva “finitezza” di alcune pratiche, come quella relativa all’International Style e al decostruttivismo. A livello compositivo ci sono state due risposte: in primis ricollegando il linguaggio alla sua essenzialità costruttiva, elevando quest’ultima a momento estetico; si pensi a Can Picafort di Ted’A, ma anche, molto tempo prima, alla cappella del campus ITT di Mies Van der Rohe. Ma anche riportando in auge il tema del riuso, che voi affrontate spesso. Qual è l’importanza di questi due temi nella vostra esperienza progettuale? Il riuso può ridare identità all’architettura, troppo spesso de-contestualizzata?
M.G. Noi crediamo moltissimo nel riuso, nel restauro e nella conservazione. Un esempio calzante, a tal proposito, è il Premio Pritzker che quest’anno è stato vinto da Lacaton e Vassal. I nostri territori sono saturi di edifici mediocri che rappresentano grandi occasioni di ri-configurazione. Per questo motivo, riteniamo che le nuove costruzioni debbano essere limitate il più possibile dando priorità alla conservazione e valorizzazione di quei luoghi della memoria che possono essere ridefiniti e riadattati a nuove visioni e esigenze. Pensiamo che la risposta stia nella struttura, nel sistema distributivo, negli infissi e in pochi altri elementi di dettaglio.
A.R. Pochi elementi, così come pochi materiali, devono, secondo noi, guidare il progetto. E’ la strategia ad essere di primaria importanza, soprattutto nel processo di rivalorizzazione dell’esistente, dalla stanza all’intero comparto urbano. Poche cose, capaci di esprimere la relazione tra l’esistente e la nuova addizione: un rapporto che si fonda sul dettaglio e sulla sensibilità con cui si declina lo spazio del giunto.
M.G. Il tema del riuso può farci tornare a riflettere sulle modalità che hanno definito i centri storici e, da questo studio, trarre gli spunti necessari ad elevare la prassi, spesso banale, utilizzata nella predisposizione delle contemporanee lottizzazioni. Unitamente a ciò, riteniamo importante affrontare un modello abitativo rinnovato e adattato a spazi esistenti talvolta compressi, riconoscendo conseguentemente l’importanza di definire le esigenze primarie degli utenti: in un progetto di recupero è difficile garantire tutto il desiderato, data la contingenza di spazi.
A.R. Per questo motivo, soprattutto in questi contesti ed in questi progetti di rivalorizzazione è fondamentale la sensibilità della committenza, nonché il ruolo di “guida” che può avere l’architetto nella gestione del progetto.
6 – Un consiglio a tutti i giovani architetti e neolaureati?
M.G. Studiate, viaggiate, vivete per l’architettura. Saprà ripagarvi con magnifici spazi.
A.R. Saper cogliere in ciò che comunemente viene chiamato vincolo delle insperate possibilità di dimostrare che “andare oltre” e sperimentare è sempre possibile.
Copertina: Ritratto di AMAA, per gentile concessione di AMAA.