Al momento stai visualizzando Guardare al futuro con il navigatore della scienza: intervista a Luca Mercalli

Guardare al futuro con il navigatore della scienza: intervista a Luca Mercalli

Climate change, migrazioni, architettura ed energia. Come sta cambiando il mondo?

Alla luce degli eventi recenti, è inevitabile chiedersi quale sarà il futuro del nostro pianeta e come potremo organizzare la nostra società in funzione dei cambiamenti in atto. Ne abbiamo parlato con Luca Mercalli, metereologo, climatologo e divulgatore scientifico attivo nella lotta al climate change.

1 – Abbiamo visto di recente, con l’emergere del fenomeno Fridays for Future e con la figura di Greta Thunberg, come la nuova generazione italiana – e non solo – ha molto a cuore questo problema. Qual è la responsabilità di queste nuove generazioni?

La generazione che ad oggi ha trovato espressione nel movimento di FFF, sarà indubbiamente la più colpita dal climate change, è auspicabile quindi che siano proprio gli stessi giovani a chiedere e operare per un futuro a lungo termine diverso da quelle che oggi sono le previsioni degli esperti se non si avrà un radicale cambio di rotta. Chiaramente, la protesta e lo scendere in piazza sono modalità fondamentali per trovare una comunità e riuscire a portare avanti la causa.

2 – A proposito delle proteste e degli scioperi che hanno costellato gli ultimi anni, quali sono le scelte necessarie che possono fare la differenza? Non solo a livello pratico, ma anche per riuscire a farsi ascoltare meglio dato che la percezione che si è avuta fino ad oggi di questi movimenti è da un lato la grande partecipazione, anche a livello mediatico, ma allo stesso tempo si sente la mancanza di un effettivo ascolto delle tematiche portate avanti dai movimenti.

Non esiste una risposta definitiva, data la vastità del problema. Ma è una risposta che necessariamente dobbiamo trovare sforzandoci con tutta la fantasia e l’impegno scientifico possibile. Io personalmente conto molto sul fatto che la creatività – anche in campo scientifico – sia una prerogativa giovanile, in grado di portare idee nuove dato che quanto fatto fino ad oggi si dimostra non sufficiente.

In questo momento, infatti, il bisogno di idee nuove per affrontare una nuova emergenza è altissimo, non potendo fare più affidamento sulla tradizione scientifica che ci ha portato fin qui. Servono soluzioni nuove che dimentichino il passato e si affidino ad un nuovo modello scientifico che possa fare da navigatore nel viaggio verso il futuro.

Le piste da seguire sono molte, ma sicuramente è necessario un forte impegno politico perché se le proteste non bastano a sollevare l’interesse dello stato sociale, allora devono entrare nei luoghi di potere, come hanno dimostrato le vicende politiche dei verdi svizzeri e tedeschi entrando nei rispettivi parlamenti.

3 – Il caso svizzero e tedesco, da questo punto di vista, si qualificano come novità sulla scacchiera politica. Nel merito del caso svizzero vorrei sottolineare la notizia dell’abbandono dell’energia nucleare, forma di energia estremamente discussa dato che non sono pochi i sostenitori del nucleare, i quali vedono il nucleare come unica forma di energia in grado di soddisfare il fabbisogno europeo limitando i danni ambientali. Cosa ne pensa?

La questione è molto complessa, come sempre stiamo parlando di soluzioni poste da chi ha una veduta molto limitata oppure degli interessi. È vero che il nucleare non crea emissioni nel momento di produzione dell’energia, ma non viene considerato il costo ambientale delle risorse che servono sia a mantenere in vita gli impianti, sia delle materie prime necessarie alla produzione dell’energia nucleare e tantomeno le scorie che essa produce a fine ciclo.

L’uranio – il materiale necessario per l’energia nucleare – è comunque una risorsa limitata e per recuperarla servono scavi nelle miniere che lo custodiscono, creando di fatto ulteriori distruzioni ambientali dovute all’attività mineraria in quanto tale, quindi, chi sostiene che il nucleare sia a favore dell’ambiente ignora di proposito il metodo estrattivo che lo contraddistingue. Inoltre, non ci occupiamo mai delle scorie che devono essere stoccate in sicurezza ma che nessun paese del mondo vuole ospitare. Sostanzialmente, il rischio con il nucleare è che per avere qualche anno di relativo calo delle emissioni, si crei un danno maggiore causato dalle scorie radioattive prodotte dagli impianti ed è un carico che cadrà necessariamente su voi giovani e le generazioni future vista la longevità delle scorie stesse.

Il concetto è quindi: il nucleare è di per sé un vicolo cieco, dove è presente oggi si può portare a fine vita ma è da irresponsabili pensare di investirci. Chi sostiene il nucleare, da questo punto di vista, vuole sostenere uno status quo, ma il punto è un altro: dobbiamo consumare meno e non cercare soluzioni palliative al mantenimento di un sistema che ormai non può più funzionare. Se si accetta una virata verso una sobrietà intesa come sobrietà nei consumi e limitazione degli eccessi, allora anche le energie rinnovabili saranno sufficienti, ma non è possibile pensare di mantenere le condizioni attuali o peggio di risolvere il cambiamento climatico senza rinunciare o limitare i nostri consumi.

4 – Lei ha usato un bellissimo termine, ovvero sobrietà: è un concetto che non fa minimamente parte del nostro paradigma sociale per come lo conosciamo. In che modo il concetto di sobrietà è una soluzione percorribile?

La scarsa attitudine alla sobrietà della nostra società in termini di consumi è – tra le altre cose – una delle radici del negazionismo di cui abbiamo parlato prima. La paura che con la molla del problema ambientale si arrivi ad una riduzione della qualità della vita, anche se non è sempre così. Se da un lato sono richieste delle rinunce, che a mio parere sono necessarie perché un tenore di vita del genere non è sostenibile, dall’altro sarà solo un cambiamento di abitudini.

Faccio un esempio che starà antipatico anche a molti giovani: uno dei modi più importanti per inquinare è proprio il viaggio aereo, ma nessuno – in nessuna generazione – pare voler rinunciare, in veste delle occasioni offerte dai voli low cost. Quanti sono disposti a rinunciare all’aereo? Ancora troppo pochi, perché è percepita come una grave rinuncia. Ovviamente non intendo dire che si debba stare tutti a terra, ma che l’aereo venga inteso come tecnologia a servizio della necessità e che venga usato in casi di estremo bisogno.

5 – Qui entra in gioco quello che per noi potrebbe essere una speranza, ovvero l’Architettura. Secondo lei potrà essere un’alleata nella battaglia al cambiamento climatico?

Sicuramente si, e lo è in due funzioni. Da un lato nella mitigazione, ad esempio, se io ho una casa a risparmio energetico altamente efficiente che è in grado di produrre energia attraverso i pannelli solari, evidentemente ridurrò le emissioni, contribuendo a stare nei 2 gradi previsti, invece dei 5 che si prospettano se non si prendono serie misure in merito. Ad oggi, infatti, l’obiettivo è limitare l’aumento delle temperature a soli 2 gradi e per farlo l’architettura è uno strumento indispensabile nella riduzione dei consumi.

Inoltre, l’architettura può contribuire molto all’adattamento progressivo a queste condizioni: per i danni che ormai sono già stati fatti, progettare strutture in grado di resistere ad eventuali rischi maggiori può proteggerci. Se in futuro le nostre città, ad esempio nella pianura padana, raggiungeranno le temperature previste dagli scenari degli esperti – arrivando nel giro di qualche decennio a toccare i 50 gradi come in India – la necessità sarà progettare secondo criteri di sostenibilità per riuscire a minimizzare consumi e impatto ambientale, proteggendo chi vi abita anche da eventuali patologie legate a doppio filo al fenomeno dell’inquinamento e del caldo crescente, soprattutto per le fasce di popolazione più deboli.

6 – Come mai, nonostante ormai i dati siano chiari a tutti, c’è ancora un forte negazionismo verso questi fenomeni da parte di entità economico politiche?

Vede, il negazionismo non è ad appannaggio delle autorità, sono molti i cittadini che rifiutano la realtà del cambiamento climatico per svariati motivi. Per quanto riguarda le autorità che negano i processi climatici in corso, sono ovvi gli interessi che muovono il pensiero verso la negazione del cambiamento climatico, a partire dagli interessi sul mercato del petrolio e combustibili fossili che hanno un valore economico enorme. Partendo da questo presupposto è naturale comprendere come si tenti di preservarne l’esistenza, evitandone l’abbandono.

Parlando invece dei singoli cittadini, spesso, quando non c’è un vero interesse economico da preservare, possiamo parlare di un problema di psicologia sociale: non vogliamo uscire dalla nostra comfort zone, nonostante l’evidenza del problema, perché richiede al cittadino una responsabilità diretta, partecipando attivamente alla costruzione del cambiamento operando scelte – benché non sempre confortevoli – che possano fare la differenza.

7 – Di che azioni stiamo parlando?

Le soluzioni da adottare sono molteplici, ma con un minimo comune denominatore: fare un passo indietro soprattutto per quanto riguarda le nostre abitudini quotidiane, dalla scelta dell’auto fino alla rinuncia di spostamenti attraverso l’aereo. Chiaramente, sono sacrifici che dobbiamo fare, ed è proprio per questo che – in molte persone – vediamo un rifiuto netto della realtà.

Lo stesso rifiuto della realtà climatica, inoltre, è ciò che permette una sorta di auto assoluzione dal problema, preferendo la deresponsabilizzazione individuale, rispetto ad una presa di coscienza, per quanto essa sia necessaria.

8 – Siamo quindi di fronte alla necessità di cambiare il modello sociale radicalmente: tornare ad un modello di sobrietà soprattutto nei consumi. Secondo lei quali potrebbero essere i nuovi modelli di società che potremmo sviluppare?

Non ho la risposta ed è per questo che sostengo l’appello alla creatività individuale nell’invenzione di un nuovo sistema sociale, ci sono timide proposte che vanno però esaminate ed ascoltate e che si pongono sostanzialmente come alternativa alla smisurata crescita economica.

Io posso dire ciò che non può più funzionare, ma non quello che funzionerà visti anche i pochi scienziati che ad oggi ci stanno lavorando ed in genere non è un argomento popolare, ma il punto fondamentale è che in un mondo dalle dimensioni finite non ci può essere crescita infinita, eppure – nonostante il concetto sia semplice ed essenziale – l’economia mondiale non accenna a cambiare direzione.

I valori fondanti della società devono essere riprogrammati oggi in funzione dei limiti fisici umani e del pianeta, chi comanda qui è la fisica del pianeta, non l’economia o i desideri della specie umana che – come tutte le altre – è soggetta a vincoli fisici. Ci vuole una bioeconomia, legata alla realtà del mondo fisico e biologico del pianeta, qualche piccolo modello c’è ma dev’essere assolutamente esplorato.

9 – Come abbiamo già detto, in questa danza di entità si inserisce anche l’Architettura, come studio di nuove possibilità. Ci si chiede come questa debba interfacciarsi all’urbanistica delle città: come vede lo sviluppo delle città sostenibili nel futuro?

Fortunatamente sono vari i corsi di urbanistica a livello universitario che si stanno orientando sempre di più verso un’interpretazione sostenibile ed ecologica della città. Per quanto riguarda il ruolo dell’urbanistica è chiaramente legato a doppio filo con l’architettura perché se da un lato posso progettare un edificio sostenibile, dall’altro devo inserirlo in un ambiente progettato per essere altrettanto sostenibile. In generale valgono i principi di prima: la progettazione di una casa o di una città non può prescindere dal concetto di riduzione delle emissioni e deve lavorare per aumentare la resilienza, cioè la capacità di essere protetti dagli eventi climatici del futuro.

In questo senso bisogna considerare non solo gli eventi che abbiamo visto fino ad oggi, ma affidarsi anche alle previsioni future: se ad esempio devo costruire una casa il cui tetto – secondo le tabelle scientifiche – deve resistere a venti fino a 150 km/h, dovrò fare affidamento al famoso navigatore della scienza che mi dice che se oggi il vento ha questa forza, in futuro potrà essere molto più potente, considerando l’aumento dell’aggressività dei fenomeni climatici, di conseguenza dovrò prevedere – ipotizzando un lasso di tempo dalla costruzione di 50 anni – potenziali danni strutturali maggiori.

Allo stesso modo possiamo parlare del livello del mare, se il livello aumenta la geo urbanistica è fondamentale: devo progettare oggi ciò che domani sarà in grado di resistere ai cambiamenti, prevedendo lo spostamento di aree della città in zone non afflitte da questo problema, oppure devo capire come recuperare parti di città dal potenziale annegamento, come dimostrato dal caso di Venezia.

10 – La situazione di Venezia è, da questo punto di vista, catastrofica ed emerge una totale cecità riguardo a questo tipo di problematiche, quali pensa saranno gli esiti?

Non si può parlare di cecità reale perché in molti settori c’è la consapevolezza dell’esistenza di questi rischi, il problema è un altro: abbiamo costruito un modello economico che ricatta qualsiasi alternativa. Chiunque voglia cambiare le cose, anche io e lei, se fossimo improvvisamente catapultati al comando, non riusciremmo a realizzare più del 10% di quanto abbiamo detto fino a qui.

Perché? Perché gli interessi economici ci ricatterebbero in ogni maniera possibile, ed è quello che succede nel momento in cui si mette a contrasto il problema ambientale con quello dell’occupazione lavorativa e delle industrie. Guardiamo l’Ilva di Taranto, non è che i problemi non vengano ammessi, anzi, tutti sanno che inquina e uccide, ma alla fine ci sono 10.000 posti di lavoro. Che si fa?

11 – Non pensa che questi posti di lavoro potrebbero essere impiegati in maniera alternativa?

Certo, ma serve un enorme programma che non sia frutto di un pezzo di stato, ma che sia frutto della concertazione di tutto un governo in cui tutti devono concordare, compresi i cittadini, ed è solo in questo caso che la trasformazione avverrebbe. Non succede ancora perché, come detto prima, viene contrapposto l’interesse economico del momento corrente. Chi dice di chiudere l’Ilva, infatti, si sente rispondere che dal giorno dopo ci saranno 10.000 disoccupati, ed ecco che si ferma tutto, di conseguenza si vanno a cercare palliativi.

12 – L’impressione, infatti, è quella di vedere personalità politiche a vario titolo – penso all’America di Trump e non solo – in cui l’interesse a mantenere lo stato attuale è evidente. Quanto potrà durare?

L’America di Trump è smaccatamente di parte, in cui l’interesse è dichiarato e motivo di elezione. In Italia non possiamo dire che ci siano gli stessi interessi eppure si fa ancora poco, perché il motivo sostanziale è che ogni manovra presupporrebbe la rinuncia a determinati interessi. La tassa sulla plastica, ad esempio, calza a pennello per questo concetto: finché la gente non chiederà in maniera ancora più forte di volere questi provvedimenti, non verranno fatti. Non appena si è parlato di tassa sulla plastica, infatti, le fabbriche non hanno tardato a reagire, così come i consumatori, sostanzialmente affossando la questione e trasformandola in un tamtam mediatico fine a se stesso.

13 – La difficoltà che emerge, quindi, è anche quella di una larga fetta di popolazione che vorrebbe ridurre il proprio spreco ed il consumo di plastica, ma risulta materialmente molto difficile, visto il disinteresse alla diffusione di pratiche come la spesa alimentare sfusa, che permetterebbe un cambio nelle abitudini alimentari, ritenute da molti esperti pratiche fondamentali alla lotta al climate change. Come pensa che la dieta e l’alimentazione possano cambiare le cose?

Premesso che è sbagliato dire che la dieta sia l’arma più importante, perché è un modo come un altro per creare degli alibi e distogliere l’attenzione dal fatto che il cambiamento climatico investe tutte le aree della nostra vita e sarebbe sbagliato farne una classifica, l’atteggiamento dovrebbe cambiare a 360°. La dieta in questo senso vale per il 15% ed è uno degli atteggiamenti più facili da affrontare perché le scelte alimentari sono soggettive, penso ad esempio al vegetarianesimo, è adottabile anche in mancanza di specifiche indicazioni legislative. Il problema è semmai la quantità di plastica che pervade l’industria alimentare e la GDO (Grande Distribuzione Organizzata), nonostante qualche timida esperienza – sicuramente da incoraggiare – di negozi di alimentari sfusi stia facendo capolino sul mercato.

In tutto questo discorso aggiungo il fatto che, proprio perché siamo partiti dall’Architettura, questa è importante tanto quanto la dieta se non di più perché le emissioni nei paesi europei provengono principalmente dalla casa, incidendo per il 30 – 40% sull’ambiente, e quindi l’architettura è l’asse importante su cui agire. Per questo io sollecito tutti a pensare che invece di cambiare la macchina, perché non approfittare degli Ecobonus per isolare meglio la propria abitazione? Nel mio caso, ad esempio, ho ridotto i consumi della mia abitazione dell’80%, che si riflette nel risparmio anche economico di ogni singola famiglia, dato che non pago ciò che posso produrre da solo.

14 – Qual è la sua speranza per il futuro? Ci sono scenari che vede più probabili di altri?

Bisogna cadere con il paracadute ed ora è il tempo di fabbricare questo paracadute, anche se non si potrà evitare – almeno in parte – di cadere. I due gradi ed il mezzo metro di mare sono già un rischio inevitabile. Sarebbe una vittoria evitare lo scenario peggiore – che è un pezzo di paracadute – accostato alla progettazione di un mondo resiliente per cercare di non farci troppo male.

15 – Come pensa che la nostra società potrà assorbire il flusso migratorio derivato dai cambiamenti climatici?

Non ho la minima idea di come si potrà affrontare lo spostamento di centinaia di milioni di persone, questi sono i numeri di cui si parla, perché soprattutto le aree di India e Africa saranno sottoposte a carenze di vario tipo oppure al rischio di diventare del tutto invivibili, a causa del calore umido che si sviluppa in queste zone.

16 – Tanti hanno espresso il timore di una rivoluzione sociale anche in concomitanza di quanto sta succedendo sullo scenario politico. Pensa che potremo affrontare questo cambiamento in maniera pacifica?

Il rischio è quello di un grande conflitto, perché le migrazioni di popoli causate dai cambiamenti climatici ed i problemi delle risorse legate all’economia sicuramente possono portare all’esplosione di un conflitto. Di conseguenza è necessario lavorare nella direzione in cui questi fenomeni possano essere per lo meno mitigati, avendo come obiettivo la sostenibilità ma soprattutto la pace.