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Come (non) vivremo insieme?

I più profondi pensieri di analisi delle condizioni potenziali di crisi nella società sono stati sviluppati in passato, e ciò ci deve far riflettere sul nostro modo di osservare il mondo.

Avremmo preferito che il carattere della riflessione qui proposta, che si rifà al tema della Biennale di Architettura di Venezia 2020 “How will we live together?” fosse di natura diversa, ma purtroppo siamo costretti a fare i conti con la crisi sanitaria, economica e sociale più grande dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La pandemia di Covid19, oltre ad aver messo a nudo le nostre debolezze e le nostre paure più inconsce, ha fatto crollare numerose certezze. La globalizzazione, ad esempio, fa parte di questi numerosi castelli di carta. Da un lato, infatti, l’enorme interconnessione tra paesi, favorita da una rete illimitata di trasporti, ha fatto sì che il mondo si sviluppasse più rapidamente, che le diverse e colorate culture si mescolassero e che le conoscenze si trasmettessero. Dall’altro lato però questa facilità di movimento ha spianato la strada alla diffusione del virus che, in pochi mesi, è diventato da epidemico a pandemico.
Ecco, quindi, la pazza rincorsa al vaccino, il problema si è trasformato da nazionale a globale. Riguarda tutto e tutti. Ma sarà la scoperta del vaccino a farci dimenticare definitivamente del virus? La storia ci insegna che, con ogni probabilità, il virus diventerà endemico, ovvero una malattia costantemente presente nella popolazione con prevalenza bassa (ipoendemia) o con prevalenza alta (iperendemica). Risulta pertanto evidente che saremo costretti a convivere con la malattia, ad adeguarci rispetto ad essa, ad adottare un atteggiamento flessibile.

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© Fabio Bussalino, Coprifuoco 2, Genova, 2020.

“Sono ormai molti i virologi e gli epidemiologi a sostenere che il coronavirus diventerà probabilmente endemico, cioè circolerà nella popolazione e dovremo farci i conti in tutte le stagioni” scrive Nükhet Varlik, Professoressa del Dipartimento di Storia dell’Università del South Carolina, esperta delle conseguenze delle malattie infettive nella Storia.
La definiscono la malattia della solitudine. Ci costringe a vivere senza gli altri, a non socializzare, ma l’uomo è nato per stare insieme con i suoi simili. Sin dall’alba dei tempi quando, nomade, si spostava “in branco”. L’uomo è “politikon zoon”, scriveva il filosofo greco Aristotele (IV secolo A.C.) nella sua “Politica”: l’uomo è un “animale sociale” in quanto tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società. Ma la socialità è un istinto primario o è il risultato di altre esigenze? È proprio un istinto primordiale quello che spinge l’uomo a relazionarsi con le persone, quasi un istinto di sopravvivenza. Lo stare insieme attualmente aiuta la diffusione del contagio e, pertanto, al momento il meccanismo di difesa da usare, l’unica arma spuntata contro il virus, è quella del distanziamento fisico.
Viene dunque meno il principio di comunità e nello specifico il concetto di co-housing, tanto amato dagli architetti nordeuropei, sul quale hanno fondato una Scuola. In questo momento (e forse anche in futuro?) l’isolamento appare una possibile soluzione, per combattere la diffusione del contagio. Per isolamento non si intende la reclusione in una stanza d’albergo o di una casa, ma la divisione delle grandi comunità in più piccole realtà. L’isolamento di comunità limitate, da macro a micro. Per realizzare ciò va cambiato il paradigma. All’apparenza può sembrare semplice la formula. Tutt’altro. L’improvvisa suddivisione della comunità più grande in nuclei più piccoli genera delle problematiche di carattere logistico. Tra cui l’approvvigionamento di viveri, essenziali per la sopravvivenza. Essendo limitati gli spostamenti, per chi vive fuori dalle città risulta ancora più complicato raggiungere i punti vendita e smercio di prodotti. Di conseguenza nasce la necessità di creare delle comunità autosufficienti e auto-sostenibili. Recentemente si è sviluppata l’ipotesi per cui ogni cittadino potrà raggiungere in un quarto d’ora, a piedi o in bicicletta, i servizi necessari per mangiare, divertirsi e lavorare. Tra queste proposte che da subito hanno avuto molto seguito vi è quella della “Città dei 15 minuti”, proposta dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, e fatta propria anche dalla città di Milano, nel documento “Milano 2020”. Ma facciamo un passo indietro.

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© Fabio Bussalino, Coprifuoco 3, Genova, 2020.

Nel lontano 1978 Yona Friedman scriveva un libro intitolato “Architettura della sopravvivenza”¹, titolo che oggi appare quasi preveggente e attuale. L’architetto francese apriva con una riflessione sul futuro della società ed i dubbi sul suo destino. Tali dubbi sono figli di un incombente paura e condizione, che per l’autore sembra certa per l’umanità, ovvero quella della povertà. Friedmann sostiene che “Con l’industrializzazione, si pensava, sarebbe giunta l’era della prosperità visto che le persone cominciavano a guadagnare denaro. Ma ci si rese rapidamente conto che il denaro valeva sempre meno e che era sempre più difficile procurarsi un tetto e del cibo”.² Parole che sembrano assumere un carattere profetico del periodo che stiamo vivendo oggi, in cui paradossalmente è più facile, ricevere in pochi attimi un iPhone a casa, piuttosto che della frutta fresca. Si torna indietro nel tempo con Friedman, si rivalutano i veri beni di prima necessità, i quali attualmente scarseggiano. Da qui la proposta dell’”agricoltura urbana”. Con agricoltura urbana si intende un sistema che permetterebbe di garantire la produzione di cibo all’interno della città, di riunire cioè tetto e cibo. Tale soluzione, adottata dalle piccole comunità in tempo di Covid-19, e forse anche in futuro, potrebbe renderci autosufficienti e preparati ad affrontare un nuovo possibile ceppo infettivo. La Professoressa Nükhet Varlik, così come tanti altri esperti, lo sostengono fermamente. “Un tempo, la produzione di cibo all’interno delle mura permetteva alle città di bastare a sé stesse nei lunghi periodi di costrizione (assedi, epidemie, inondazioni ecc)”.³ Un meccanismo interessante, ma non utopico, che apporterebbe inoltre ulteriori benefici. Nel mondo, infatti, tra le cause maggiori della desertificazione vi è l’adozione di pratiche industriali nell’agricoltura. Una crescente occupazione del suolo con conseguente irrigazione, in aggiunta ad una massiva fertilizzazione e intenso sfruttamento, hanno fatto sì che il terreno si consumasse, divenendo non più fertile. Scrive ancora Friedman: “Al momento l’agricoltura urbana, (fine anni 70 – nota dell’autore) com’è ovvio non interessa le città dei paesi ricchi, che possono importare le primizie via area. Ma un blocco dei trasporti o un altro fattore di penuria potrebbe eventualmente costringerle a ritornare a questa fonte di approvvigionamento”. E conclude: “In un mondo povero (così come lo abbiamo definito), vale a dire in un mondo con sempre maggiori problemi e scarsità, può essere d’importanza fondamentale che ciascuno produca da sé il proprio cibo”.

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© Fabio Bussalino, Coprifuoco 4, Genova, 2020.

Uno degli innumerevoli fattori che potrebbero aver aiutato la diffusione del contagio è sicuramente riconducibile ai grandi centri agglomerati. Questi sono la testimonianza di un’urbanizzazione incontrollata avvenuta soprattutto durante il periodo della ricostruzione post-bellica. Con questo non si intende incolpare della diffusione della pandemia i responsabili di decisioni di pianificazione in passato, né tanto meno le istituzioni. Probabilmente però i grandi agglomerati urbani iperconnessi e le dense metropoli brulicanti di persone hanno favorito l’avanzata del virus. Mentre negli anni floridi della produzione architettonica si privilegiava la progettazione di totale controllo, nel 1934 Frank Lloyd Wright ipotizzava invece una città diversa. L’architetto americano è precursore di quel movimento che negli anni ‘70 si sviluppò negli Stati Uniti, che aveva l’obiettivo di sovvertire il sistema capitalistico che opprimeva la libertà individuale. Wright è l’architetto del dentro e contro l’architettura, forte sostenitore del “rage against the american dream”. Ed è proprio dentro il sistema (quello dell’architettura) che pensa ed elabora un progetto appunto lontano dal processo convenzionale capitalistico dei grattacieli. L’idea rimasta su carta è quella di una città infrastrutturata, nuova, che supera la concentrazione urbana a favore di un disegnato ben pensato e totale: Brodoacre city⁴. Più che città, Broadacre City deve considerarsi un esempio di urbanizzazione: la città “dovunque e in nessun luogo”. Decentramento e urbanizzazione costituiscono gli elementi fondamentali per un riassestamento organico della struttura sociale e civile americana. Inoltre, secondo il piano di Wright, a ciascun cittadino deve essere concesso un acro (ca. 4000 m²) di terreno in modo che ogni famiglia possa isolarsi nel verde, procurarsi il cibo in modo autonomo e quindi in definitiva vivere in modo autosufficiente.

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© Fabio Bussalino, Coprifuoco 5, Genova, 2020.

Le idee di Frank Lloyd Wright (anni ‘30) e Yona Friedman poi (anni ‘80) non rappresentano la soluzione alla pandemia Covid-19, ma sicuramente offrono degli spunti di riflessione per pensare ad una nuova città, quella del futuro, che sempre di più dovrà convivere con delle difficoltà oggettive. Il fatto che tali teorie siano state sviluppate molti anni prima della piena presa di consapevolezza sia della crisi ambientale, sociale e sanitaria, ci deve far riflettere. Rem Koolhaas prima di essersi affermato come architetto per i suoi progetti visionari, ha trascorso i primi suoi anni della sua carriera decifrando ed analizzando la società contemporanea, e ha indovinato quella che sarebbe stata la società del futuro. A tal proposito, infatti, non credo sia casuale che, attraverso il suo nuovo progetto “Country side, The future”⁵, l’architetto veda nel futuro della società una deriva di ri-conquista della ormai dimenticata campagna, che un tempo l’Uomo ha abbandonato in piena rivoluzione industriale per cercare fortuna in città. Lo storico greco Tucidide nel raccontare la peste che colpì Atene nel 430 a.C. disse che più che la peste, a distruggere Atene fu la paura stessa della peste. Con ciò, pertanto, noi non dobbiamo avere timore di ripensare la città come un nuovo organismo per le persone, con le persone e soprattutto efficace e pronto ad adattarsi alle esigenze di tutti.

Copertina: © Fabio Bussalino, Coprifuoco 1, Genova, 2020.

¹ Yona Friedman, Architecture of survival, Bollati Boringhieri, Torino, 2009.
² Yona Friedman, The discovery of poverty – The new poverty, in Architecture of Survival, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 60.
³ Yona Friedman, The discovery of poverty – Urban agricolture, in Architecture of Survival, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 68.
⁴ Broadacre City era un concetto di sviluppo urbano o suburbano proposto da Frank Lloyd Wright per gran parte della sua vita. Ha presentato l’idea nel suo libro The Disappearing City (William Farquhar Payson, 1932).
⁵ OMA – AMO, Countryside, The Future, esposizione al New York Guggenheim Museum, New York, Febbraio 2020.

  • Articles
He was born in Genoa in 1996 where he attended the Liceo Classico. He graduated from the Department of Architecture and Design of the University of Genoa. Since 2018 he is a member of ISA (Ianua Student Association) with which he participates in national and international projects. In 2019 he started the Master at the Polytechnic of Milan.
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