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New Towns: intervista a Michele Bonino

Michele Bonino nasce a Torino nel 1974, studia nella sua città natale dopodiché si sposta a Barcellona. Nonostante continui a viaggiare torna di base in Italia dove attualmente è Docente di Composizione Architettonica e Urbana e Delegato del Rettore per le Relazioni con la Cina al Politecnico di Torino.
È stato Visiting Professor alla Tsinghua University di Pechino e Visiting Scholar al Massachusetts Institute of Technology di Boston.
È Curatore accademico della Biennale of Urbanism/Architecture 2019, esposta nella città di Shenzen in Cina.
Sta coordinando la partecipazione del Politecnico al progetto di ricerca “Transition towards Urban Sustainability through Socially Integrative Cities, in the EU and in China” (finanziamento Horizon 2020) ed il progetto architettonico per il Visitor Center dei XXIV Giochi Invernali Olimpici di Pechino 2022, sito di Shougang. Sta inoltre avviando, con la South China University of Technology, il primo corso di laurea in “Urban Design” in Cina.
Suoi articoli e saggi sono stati pubblicati su “Abitare”, “de Architect”, “Les Cahiers de la Recherche Architecturale et Urbaine”, “Casabella”, “Le Culture della Tecnica”, “Il Giornale dell’Architettura” (di cui è stato anche responsabile di pagina), “Parametro”, “Il Sole 24ore”, “Territorio”, “World Architecture” e su numerosi altri volumi.
Tra i libri pubblicati, “The City after Chinese New Towns” (Birkhäuser 2019, con F. Governa, M.P. Repellino, A. Sampieri) e “Beijing Danwei. Industrial Heritage and the Contemporary City” (Jovis 2015, con F. De Pieri).

1 – Cosa sono le New Towns? Cosa rappresentano per i Cinesi? Cosa rappresentano per noi? Come le stanno costruendo e perché?

Il fenomeno delle New Towns esiste da secoli, le motivazioni che hanno portato a costruire città ex novo in Europa od in altre parti del mondo spaziano dalla necessità di creare nuovi luoghi di potere fino al bisogno di spazio per gruppi di popolazione che devono trovare una localizzazione. Al Politecnico di Torino, oltre ad un corso accademico svolto con Filippo De Pieri che ha analizzato alcune New Towns costruite in tutto il mondo nell’ultimo secolo (da Canberra a Chandigarh, da Sabaudia a Milton Keynes), ci siamo focalizzati anche su una ricerca più specifica dal titolo “The City after Chinese New Towns”, pubblicata nel 2019 con Francesca Governa, Maria Paola Repellino, Angelo Sampieri per Birkhäuser (con foto di Samuele Pellecchia, Prospekt). Siamo partiti dall’ipotesi che la costruzione di New Towns in Cina, e le modalità di governo delle stesse, abbia influenzato ed influenzerà sempre di più l’urbanizzazione globale; sono nati nuovi modelli che stanno condizionando l’organizzazione del mondo.
Il motivo principale per cui è emerso un ampio programma di costruzione di New Towns in Cina è l’assorbimento della grande migrazione dalle campagne: da parecchi anni è in atto un vero e proprio esodo verso le città, con la previsione di ancora 300 milioni di abitanti che si sposteranno nel futuro prossimo. Per fronteggiare questa situazione la Cina ha sviluppato un piano di costruzione di nuove città e nuove aree di espansione delle città esistenti.

L’impulso che avvia la costruzione di una New Town cinese può venire sia a livello municipale, sia a livello governativo per iniziativa del Ministero dell’Housing and Urban-Rural Development, o dei Ministeri del Commercio o della Scienza e delle Tecnologia, nel caso di quelle “Development Zones” concepite come hub di attività innovative che strutturano la città che si genera intorno ad essi.
Invece, per quanto riguarda la localizzazione, spesso le New Towns sono effettivamente nuclei di nuova fondazione, costruite all’esterno degli insediamenti esistenti: ne sono un esempio le città lungo la Nuova via della Seta, che oltre ad affrontare il tema della migrazione urbana dalle campagne affrontano un altro problema cinese che è la ridistribuzione della popolazione nelle zone interne del paese (80% degli abitanti è concentrato nel 20% del territorio, ovvero la costa Est). Altre New Towns, o New Areas, sono invece espansioni delle città esistenti: ogni grande città cinese sta vivendo un programma di forte riurbanizzazione delle sue aree adiacenti.

Uno degli esiti che abbiamo analizzato nella ricerca è come questo programma governativo non riesca ad assecondare tutta la spinta migratoria che la Cina sta vivendo. Già dagli anni ’80, quando è iniziato il programma delle riforme promosse da Deng Xiaoping, si avviò un sistema chiamato Hukou, il quale prevede una sorta di doppio passaporto, per cui ogni abitante cinese possiede un passaporto di città o un passaporto di campagna, quindi è formalmente un cittadino rurale o un cittadino urbano. Questo meccanismo serve a regolare la migrazione urbana: città come Shanghai e Pechino hanno un Hukou praticamente chiuso, per cui è pressoché impossibile ottenere la cittadinanza se arrivi da “fuori”, mentre il passaporto urbano è favorito per chi sceglie di insediarsi nelle città di nuova fondazione ad Ovest del paese, garantendo importanti facilitazioni come l’iscrizione gratuita dei figli all’università o altri benefici. Una conseguenza di questo strumento di controllo demografico è che non tutti accettano questa condizione, di conseguenza non si conosce la popolazione ufficiale delle città principali. Pechino, per esempio, si aggira sui 10 milioni di abitanti registrati ma, in sostanza, ci sono 5-6 milioni di abitanti in più perché molti emigrano per raggiungere familiari o persone della stessa regione che hanno già la cittadinanza ufficiale. Si fermano in città rimanendo di fatto cittadini con Hukou rurale. Questa tendenza porta al fatto che nelle città cinesi vivono milioni di abitanti che non hanno accesso alla sanità ed alla scuola, e molto spesso si organizzano in comunità che offrono servizi autogestiti.

Questo rapporto tra la città formale dei cittadini registrati e città informale di chi si insedia non ufficialmente rende il tessuto e la vita dei poli urbani cinesi estremamente interessante, perché esiste una convivenza dei due fenomeni che nelle grosse città è praticamente onnipresente e attribuisce un’identità particolare. Tuttavia, non è mia intenzione estetizzare questa condizione, perché si tratta di un problema spesso drammatico, sia in termini sociali che urbanistici: come dimensionare i servizi pubblici di una città sapendo che in teoria gli abitanti sono 10 milioni ma in realtà sono 15?

2 – Premettendo che, considerati i tempi dell’architettura e l’inconsistenza delle previsioni, crediamo che la città del futuro sia quella che stiamo costruendo oggi, e l’esempio cinese è lampante, quali sono gli aspetti positivi delle New Towns attualmente in costruzione? Quali i negativi? Quali le contraddizioni?

Un aspetto molto contraddittorio è il rapporto con l’ambiente. La Cina percepisce come possibile rischio per la sua stabilità l’emergere di una classe media sempre più ampia, non più disposta a vivere nelle condizioni urbane a cui era abituata. Ad esempio, la Pechino che ricordo nel 2013, quando vi ho trascorso un semestre d’insegnamento, era un luogo inaccettabile per chi finalmente aveva un reddito tale da far vivere meglio la propria famiglia. Pechino era una città inquinatissima dove per spostarsi erano necessarie ore nel traffico. Con l’emergere di una classe media esigente ed ambiziosa, il Governo ha deciso di puntare su questo lo sviluppo urbano, attraverso un grande lavoro di riduzione dell’inquinamento e di promozione di una vita sana.

Pechino sta cambiando fisionomia, nel giro di pochi anni ha ridotto di oltre il 30% la quantità di inquinamento urbano con alcune azioni convenzionali, come l’introduzione delle targhe alterne e la riduzione dei consumi energetici, ed altre più straordinarie come il trasferimento delle fabbriche. Lo spostamento di molti stabilimenti produttivi al di fuori delle città libera spazi per la riqualificazione urbana, rappresentando un’interessantissima opportunità di rigenerazione delle città da dentro. Inoltre, è importante sottolineare che nonostante si parli di una Cina che costruisce alla massima velocità, in realtà a Pechino si chiudono i cantieri edili ogni inverno: i lavori si interrompono per due mesi e vengono distesi sulla terra nuda e sulle montagne di macerie dei teli verdi che bloccano a terra la polvere, per non inquinare. Sorvolando Pechino d’inverno sembra di assistere ad una grande installazione di land art.
Quindi, è negativo che le città cinesi abbiano ancora bassi standard ambientali, ma è positivo constatare come con questo tipo di politiche stiano cambiando le cose in pochi anni.

Un altro aspetto riguardante l’ambiente, la salute ed il coinvolgimento dei cittadini, è un programma di “Salute Attiva”, con lo scopo di riportare la cittadinanza a vivere le città all’aperto. Questa tendenza è radicata nello spirito cinese, tuttavia era stata azzerata da un’ambiente inospitale: nella Pechino del 2013 non mi sarei mai sognato di andare a correre, adesso si può fare.
A questo proposito in occasione delle Olimpiadi di Pechino 2022, che diventerà la prima città ad avere ospitato sia le Olimpiadi estive che quelle invernali, è stata fondata una nuova città dal nome Snow Town: si trova a 300 km da Pechino, ma con la ferrovia veloce sarà raggiungibile in 50 minuti. Alla luce di questo grande evento, la volontà non è più di mostrarsi al mondo come in occasione delle Olimpiadi del 2008, ovvero con gigantismo e grandi opere come lo stadio di Herzog e De Meuron. L’obiettivo ora è di spingere la popolazione verso lo sport, verso un’attività all’aria aperta da cui la fondazione della Snow Town nel distretto di Chongli: una specie di satellite di Pechino, dedicato alla sensibilizzazione della vita all’aperto, di standard di vita più alti e più salutari, che stanno diventando uno status symbol importante per la classe emergente.
Mi ha impressionato vedere alcune persone prendere l’aperitivo in centro a Pechino vestiti con la tuta da sci ad oltre 300 km dalle piste, forse fa sorridere, ma rappresenta come si stia muovendo la classe media cinese verso un nuovo stile di vita urbano.

3 – Hai in mente delle soluzioni teoriche, oppure già avviate, che possano contribuire ad una crescita dei paesi in via di sviluppo? Secondo te è possibile che il modello delle New Towns venga applicato in Africa dove i cinesi hanno già molti interessi? Che effetto potrebbe avere?

Per quanto riguarda l’Africa, o più in generale l’area di pertinenza della Nuova Via della Seta (Belt and Road initative), questo processo è già ampiamente iniziato.
Esempi significativi sono due porti, con annessi servizi, residenze ed uffici a formare grandi complessi urbani: Gwadar, un porto in Pakistan che già viveva una fortissima espansione e che attualmente si sta portando dietro un’intera New Town d’iniziativa cinese, e Gibuti, altro porto di costruzione cinese anch’esso in grande espansione.
In particolare, China Merchants Group sta replicando lo “Shekou model”, il porto di Shenzhen, investendo in vari punti delle rotte marittime riconducibili alla Belt and Road e costruendo fisicamente scali navali con relative New Towns.

Un altro esempio è Tashkent in Uzbekistan, dove il Politecnico di Torino ha una sede: a una cinquantina di chilometri dalla città è stato fondato un parco industriale cinese, Peng Sheng, parte di un sistema di altri 20 insediamenti di questo tipo fondati fuori dal territorio nazionale, al fianco del quale è stato costruito un enorme Parco dell’Amicizia, perfettamente mantenuto nonostante sia in una zona desertica: una compensazione all’insediamento in territorio altrui. Questo tipo di approccio, nonostante l’indubbia espansione economica, spesso aggressiva, si basa su un’idea armoniosa di collaborazione. In questo spirito a Gwadar si sta costruendo una New Town in uno stile pseudo-nazionale pakistano: i modelli urbani cinesi che si ingentiliscono e si avvicinano alle tradizioni locali, attraverso una sorta di diplomazia architettonica.

La Belt and Road Initiative parte da un racconto geografico, ripristinando le rotte tra Europa e Cina, ma presto è diventato uno strumento di politica estera a tutto campo (ad esempio anche il Brasile ha firmato un accordo per la Belt and Road): sta diventando la modalità cinese di fare relazioni internazionali. Si chiama “iniziativa” non a caso: non è un’operazione a cui bisogna aderire per forza, ricordo il dibattito italiano a questo riguardo durante la scorsa primavera. Nella sostanza i Cinesi si muovono in maniera molto determinata, ma esiste sempre una narrativa di incontro tra due culture che collaborano ad uno sviluppo comune.

4 – Che significato dai ad episodi come la ricostruzione dei monumenti storici in scala reale all’interno delle New Towns? Quali sono le conseguenze sulla città degli approcci differenziati dei singoli imprenditori rispetto ad un univoco orientamento governativo?

I monumenti ricostruiti in scala 1:1 nelle New Towns cinesi sono spesso parte di un’ulteriore strategia, per spingere le persone a vivere in queste città, insieme ad alcune politiche descritte nelle risposte precedenti. Ciò fornisce la possibilità di vivere un certo tipo di esperienze senza doversi muovere, in qualche modo hanno un valore sostitutivo dell’esperienza di viaggio, ma soprattutto esagerano la dimensione dell’intrattenimento e dello svago. Lanzhou New Area, che ospita un parco di attrazioni con copie dei più famosi monumenti del mondo, dal Colosseo al Taj Mahal, sarebbe un’area urbana totalmente inospitale: il progetto urbano è pervaso di occasioni di svago, per moltiplicare l’attrattività dell’esperienza urbana. Nella stessa New Town sono stati costruiti molti parchi perfettamente disegnati, in mezzo al deserto, portando l’acqua e realizzando opere ingegneristiche molto importanti, proprio per creare un microcosmo che possa costruire un’idea di città a tutto tondo, dove altrimenti potrebbe esserci molto difficilmente.

Il tema della “copia”, d’altra parte, affonda le sue radici in una mentalità cinese che è molto diversa dalla nostra. Il valore che viene dato al monumento, o in genere a edifici del passato, non ha niente a che vedere con l’”originalità”, mentre è molto più importante l’”integrità”. Ad esempio, il Feng Shui è una tradizione legata al fatto che un elemento artificiale, che l’uomo inserisce nella natura, corrisponda e rispetti le regole della natura stessa. Quindi la disposizione sud-nord, la posizione rispetto agli astri ed al territorio, ecc. sono parametri che necessitano di un edificio integro al fine di rispettarli. Se un tempio crolla per metà è impensabile conservarlo in parte, perché perde il suo valore di corrispondenza con il sistema naturale in cui vuole inserirsi. Meglio piuttosto ricostruirlo. Il tema della copia, quindi, ha una profondità storica. Tuttavia, quando leggiamo che in Cina esistono 32 esemplari della Casa Bianca di Washington, siamo lontani da quella finezza di ragionamento che ho appena cercato di descrivere, ma entriamo in un altro tema tradizionalmente cinese: il modello.

La politica cinese ha sempre avuto la necessità di controllare dal centro un territorio vastissimo, ed il fatto di creare e trasmettere dei modelli è sempre stata una delle modalità principali al fine di mantenere controllo e potere. Un esempio interessante è come i due più recenti Piani Quinquennali, con l’obiettivo di sviluppare l’industria culturale creativa (la produzione di contenuti al fine di generare profitto), abbiano stabilito importanti politiche per convertire le fabbriche dismesse in centri culturali. A questo proposito, in un edificio rigenerato a Pechino già sede dell’agenzia governativa di stampa Xinhua, si è creata una trasformazione “flagship” che viene mostrata a tutti i funzionari politici ed ai promotori culturali che, in ogni parte della Cina, vogliano fare un’operazione del genere: è un intervento di alta qualità con la valenza di caso studio, attraverso il quale viene spiegato ai funzionari come fare, così a loro volta “copino” il modello in altre città del Paese.
Abbiamo insomma due componenti: da una parte c’è il mercato, poiché ai nuovi ricchi piace abitare in luoghi che richiamino spazi architettonici prestigiosi ed ai funzionari spesso conviene trasformare le città in poli turistico-commerciali, dall’altra abbiamo il tema della copia e del modello.

Riguardo al diverso approccio dei singoli imprenditori rispetto ad un univoco orientamento governativo, posso dire che il rapporto tra architettura e città è molto peculiare in Cina: i progetti urbanistici promossi dalle autorità governative, anche se spesso sofisticati, non promuovono un’integrazione tra la dimensione urbana e quella degli edifici. Si fermano tipicamente a definire griglie urbane e confini, determinando grandi lotti che possano agevolmente essere attribuiti ai developer interessati ad acquisirne il diritto di costruzione: ancora oggi, nonostante i segnali di allarme che spesso i meccanismi speculativi hanno dato all’economia cinese, si tratta di uno dei principali introiti delle amministrazioni locali. Quale architettura occuperà ogni lotto non è dato saperlo, dipenderà dalle scelte di singoli promotori o costruttori. Ma proprio questo fenomeno, paradossalmente, mette a nudo l’architettura, non la sfuma dietro mescolanze o stratificazioni, fino a rinforzarla. Da un lato questa collezione di oggetti esce dal controllo di amministratori e governanti, dall’altra essi ne capiscono la chiarezza e la potenziale strumentalità. E tornano ad attribuirvi significati (a livello propagandistico, commerciale) che un’architettura più “urbana” non riuscirebbe a esprimere così chiaramente. In molti casi, questi significati attribuiti all’architettura possano diventare veicolo di alcuni valori: abbiamo visto precedentemente, ad esempio, la “salute” ed il “divertimento”.

5 – Come si stanno amalgamando, in Cina, città diverse? Sono diverse o già in partenza sono la stessa città? Esistono entrambi i casi? Quali sono le strategie cinesi per creare delle megalopoli partendo da singoli episodi urbani?

Un modello che abbiamo studiato nella ricerca “The City after Chinese New Towns” è il caso di Zhengzhou (che ospita il celebre masterplan di Kisho Kurokawa) e Kaifeng, che vede la crescita di una enorme megalopoli per nuclei indipendenti, separati da grandi spazi verdi solcati da autostrade e ferrovie, al fine di collegare le città esistenti sfruttando il fascio di infrastrutture. Queste New Towns vengono strutturate sui nodi ferroviari che le precedono. Il caso di Zhaoqing, nella Provincia del Guangdong, è anche interessante perché è una di quelle tante New Towns ad essere nate sui nodi dell’alta velocità, la rete ferroviaria più grande del mondo e la più veloce ad essere stata costruita. La scelta cruciale è stata di progettare questa rete facendo in modo che i nodi fondamentali non fossero in corrispondenza delle città principali ma al di fuori, così da poter fondare una New Town in prossimità di questi poli. La strategia cinese prevede che siano le infrastrutture a generare l’urbanizzazione, non il contrario. Possiamo dire che questa forte infrastrutturazione, programmata e pianificata a livello centrale, è il primo elemento che coordina le città cinesi, che traccia l’urbanizzazione del Paese.

Oltre a Zhengzhou e Zhaoqing, il terzo caso esplorato nel nostro libro è Tongzhou: si trova ad Est di Pechino, dove si è deciso di spostare il Governo Municipale per scaricare la Capitale dalla troppa pressione amministrativa. Questa New Town, al contrario degli esempi precedenti, si è insediata dove di fatto esisteva già una delle città più antiche dell’area: il centro storico è completamente immerso nella costruzione di un’intera città. Tongzhou è una New Town, come strumento di attuazione politica ed edificazione, ma si inserisce e riempie i buchi in una città consolidata. Qui il modello di progettazione urbana cinese sembra entrare in crisi: la griglia tracciata a livello macro-urbano non può essere impostata perché si parte da un tessuto esistente, il procedere per zone identificate dalla griglia, che poi trovano i loro strumenti di sviluppo nella promozione immobiliare, si applica in maniera più frammentaria. Il risultato è un catalogo eterogeneo di tutto quello che è stato lo sviluppo della città cinese negli ultimi 150 anni suddiviso per blocchi. Di per sé è molto interessante nell’ottica delle città che si amalgamano, ma dal punto di vista della qualità urbana non ha funzionato bene.

La Cina può insegnarci come mettere in comune sinergie infrastrutturali di base, quando spesso nel caso italiano si fa fatica a mettere d’accordo città diverse. La Pianura Padana ad esempio è molto disorganizzata: in particolare se guardiamo alla disposizione delle fiere e delle expo te ne rendi conto (Milano, Padova, Bologna, Rimini, ecc.), così come gli aeroporti che sono dappertutto, senza coordinamento. In Cina procedono per grandi masterplan territoriali, che puntano a far muovere insieme e strategicamente città diverse, pianificando e regolando il territorio ed arrivando alla conclusione che una parte di servizi può essere condivisa tra due città, e così via. Chiaramente con il sistema politico italiano abbiamo altri vantaggi, come la possibilità di amministrare localmente con più attenzione, mentre la Cina ci può mostrare come coordinare il territorio più efficacemente.

6 – Alla luce della tua esperienza di ricerca e del tuo percorso personale, te la senti di ipotizzare una visione riguardo alla città del futuro? Come potrebbe essere? Come ti immagini il mondo del futuro? Che ruolo avranno le città in questo mondo?

Sono ottimista rispetto al ruolo che avranno le città nel futuro: aldilà dei dati che esprimono la tendenza del genere umano verso una vita sempre più urbana, mi sembra che le città, e quindi lo stare insieme, permettano dei vantaggi incomparabili. Quando ero studente c’era il mito dell’idea che in futuro avremmo vissuto distanti, senza aver bisogno di andare in città. Questa fascinazione mi sembra passata perché ci siamo accorti che vivere concentrati apre delle possibilità più entusiasmanti. Il consumo di energia, la mobilità, lo sviluppo della cultura, sono tutti fattori ampliamente avvantaggiati dallo stare insieme e uniti.

Per quanto riguarda la trasformazione futura delle città, non mi trovo d’accordo con quanti fanno previsioni sconvolgenti, auspicando cambiamenti radicali legati alla tecnologia. La città, essendo un’invenzione ormai plurimillenaria, non potrà cambiare radicalmente in un secolo: penso che la città del futuro sarà più o meno come quella in cui ci troviamo adesso. Sicuramente vi è un’importanza ed un’influenza sempre maggiore della tecnologia, ed è proprio l’argomento che abbiamo affrontato alla Biennale di Shenzhen 2019, che abbiamo curato insieme a Carlo Ratti ed alla South China University of Technology.

Ricordo un articolo di Richard Sennett, “No one likes a city that’s too smart”, pubblicato sul Guardian nel 2012. Sennett sosteneva di stare attenti alle città che puntano tutto sulla tecnologia, perché le Smart City del passato oggi sono un nostro incubo: la tecnologia, che si rinnova così velocemente, diventa obsoleta con analoga rapidità. Innestare la tecnologia in un sistema, come quello urbano, che invece tende a cambiare lentamente, è un’operazione delicata. La città non è come un computer che aggiorni in un attimo, o uno strumento che cambi per passare al modello successivo. La conciliazione di queste due velocità può forse avvenire se il problema viene calato in una dimensione locale, in mano alle comunità. Il primo titolo della nostra Biennale di Shenzhen, poi cambiato in “Eyes of the City”, doveva essere “Embracing Cities”: l’idea era di una città che abbracciasse ed accogliesse gruppi di persone che assumono la tecnologia come loro competenza, come modo di curare ed aggiornare l’ambiente urbano, piuttosto che grandi operazioni dall’alto per attivare innovazioni su grande scala.

7 – Quando, come e perché hai deciso che l’Architettura sarebbe stata la tua strada?

Ricordo che iniziai ad interessarmi ai disegni ed alle rappresentazioni delle città quando da piccolo trascorrevo le estati nella casa di famiglia, dove si trovavano alcune riproduzioni di mappe della Sardegna risalenti a tempi in cui non esistevano ancora strumenti topografici e cartografici. Vedevo le stanze piene di queste rappresentazioni diverse una dall’altra e tutte ovviamente “sbagliate”. Mi affascinò l’idea che anche delle cose così misurabili come i territori e le città, potessero essere oggetto di forte interpretazione in base a come venissero rappresentate. Poi, La scelta universitaria è scaturita dal fatto che nonostante mi fossi formato su discipline umanistiche (liceo classico) le persone intorno a me tendevano a consigliarmi discipline scientifiche: a me piaceva l’architettura perché stava nel mezzo, un po’ come il medico che ha una conoscenza scientifica molto solida, ma la esercita soprattutto attraverso una comprensione umana.

8 – Ad oggi qual è la tua definizione di Architettura?

Credo che una sua definizione debba essere molto meno codificata rispetto al passato. L’Architettura è diventata una capacità progettuale molto estesa, che spazia dalla tradizionale progettazione di un edificio a quella di servizi e soluzioni. I confini disciplinari sono spaccati ed è una grande opportunità: viaggiando mi rendo conto di quanto gli architetti siano utili in giro per il mondo, è un momento di grande attualità per questo mestiere.

9 – Quale consiglio vorresti dare ai futuri Architetti?

Mi sembra che il lavoro di architetto, come mestiere tradizionale, sia sicuramente in crisi ed è più difficile da svolgere. Tuttavia, la forma mentis che l’architetto acquisisce è una delle più aggiornate: saper interpretare i problemi in maniera concettuale, costruire un problema insieme ad un committente, progettare un processo piuttosto che una risposta puntuale. Su queste capacità consiglio di puntare oggi.

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Marco Grattarola AdministratorKeymaster
He graduated in Architecture Sciences at the Polytechnic School of Genoa with a thesis on “Active Architecture”. He did two internships, in an art gallery and in an architecture studio. He currently attends the Master at the Polytechnic of Milan. His interests range from music to drawing, in which he experiments with curiosity and passion.
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