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Migrazione e Architettura: intervista a Paolo Portoghesi

Uno dei fenomeni più significativi che sta identificando questa prima parte di secolo, è sicuramente quello della migrazione. Il fenomeno migratorio, condizione ricorrente nella storia, ha visto negli ultimi anni, in Italia, una sorta di scontro e confronto tra etnie aventi culture e stili di vita radicalmente diversi. Questa condizione richiama l’esigenza di un maggior impegno in campo architettonico. Un impegno volto verso l’accoglienza e l’assimilazione delle nuove culture, al fine di produrre un nuovo tipo di architettura più democratica e adatta all’odierna condizione sociale.
In quest’ottica è stato intervistato l’architetto Paolo Portoghesi che, negli anni ’70 dello scorso secolo,  realizzò il progetto per la Grande Moschea di Roma. Oggi, quest’opera monumentale, rappresenta un punto di incontro tra la cultura araba e quella occidentale e ci racconta come sia stato possibile un dialogo architettonico tra questi due mondi.

1 – Perché una moschea a Roma?

La prima richiesta per una moschea a Roma da parte del mondo islamico provenne dall’Arabia Saudita, da un monarca che si rivolse a Mussolini attraverso l’ambasciatore Quaroni. Mussolini all’epoca respinse la richiesta in quanto ci si trovava nel pieno periodo della riconciliazione a Roma. Questa esigenza si riaffacciò molto più tardi, quando tra l’altro la comunità islamica a Roma si era già molto arricchita. La comunità islamica ha origini abbastanza antiche in quanto legata al colonialismo italiano. Erano già presenti molti eritrei e somali prima ancora dell’impero conquistato da Mussolini e questi vennero successivamente stanziati, all’interno di Roma, nella zona attorno a piazza Bologna. Un importante flusso migratorio si presentò poi nel secondo dopoguerra. Queste  circostanze crearono le condizioni perché ci fosse una vera a propria necessità sociale. Di questa necessità si resero conto anche i governanti, tant’è vero che quando il Presidente della Repubblica Giovanni Leone andò a chiedere in Arabia Saudita il petrolio, anche nell’ottica di avere più opportunità di ricevere una risposta positiva, fece l’offerta di rendere possibile la costruzione di una moschea a Roma. Quasi contemporaneamente il Comune di Roma designò un’area e la dette in omaggio al fine di realizzare questo progetto. La moschea di Roma nacque in questo clima.

Si fondò una istituzione, il Centro Culturale Islamico, diretto dagli ambasciatori dei paesi islamici sia presso il Governo Italiano che presso la Santa Sede e questo determinò l’iter della moschea. In un primo momento si pensò di procedere senza bandire un concorso, affidando il progetto ad un architetto tunisino, poi vi fu la richiesta, credo da parte del Comune di Roma, di fare un concorso. Parteciparono in moltissimi. Io ero tra i vincitori, poi ci fu un’ulteriore selezione. La moschea è nata così. Oggi la popolazione islamica è molto aumentata, quindi non è più la sola moschea di Roma. Questa è quella monumentale che soddisfa molto bene le esigenze complessive, ma non quelle delle piccole comunità dislocate altrove.

Comunque sia, la Moschea in un primo tempo venne accolta piuttosto male. Ricordo che sia io, che il sindaco Argan, che Gigliotti fummo minacciati di morte. Il concorso ebbe luogo nel 1975 e nel 1984 si aprì per la prima volta il cantiere che fu però subito fermato. Venne infatti, in un primo momento, distrutto il recinto che era stato costruito attorno al terreno, dopodiché arrivò da parte dei giornali una certa reazione che portò alla luce il fatto che per realizzare legittimamente la costruzione sarebbe stato necessario redigere prima un piano particolareggiato. Questo forse non era necessariamente essenziale, ma all’epoca fu fatto anche per ritardare i lavori. Andreotti, che fu il dominus di questa operazione, fece di tutto per rinviare e nello stesso tempo aiutare il progetto che infine andò in porto. Nel 1985 la sala di preghiera funzionava, ma solo nel 1995 arrivò l’inaugurazione ufficiale.
Questa è la storia.

2 – Come ha fatto a far dialogare la cultura cristiana insita in Roma con quella islamica?

Io sono nato come architetto ma anche come storico dell’architettura. In un certo senso ho iniziato dall’operazione più facile: la storia. Cominciai da giovanissimo a occuparmi di storia e lessi, quando avevo 18-19 anni, qualche libro sulla storia islamica. Poi quando iniziai a insegnare, nel ’67 – ’68,  alcuni studenti palestinesi mi chiesero di fare alcune lezione sull’architettura islamica. Questo rafforzò molto le mie conoscenze. Cominciai poi ad andare in Giordania e Sudan dove ebbi modo di capire bene il senso delle moschee, che in fondo rappresentano una cosa molto diversa dalle nostre chiese. Sono luoghi di preghiera e luoghi di incontro. Hanno ancora una funzione che forse le cattedrali avevano nel medioevo. Oggi invece nelle chiese questa funzione si è un po’ persa. Fu questa funzione a farmi capire la problematica architettonica di un edificio del genere. Le moschee infatti non sono mai isolate, soltanto in tempi recenti hanno assunto questa connotazione. Solitamente infatti sono connesse con scuola e giustizia, hanno quindi un legame stretto con altre caratteristiche della società.

Quando venne bandito il concorso per la moschea di Roma sentii la necessità di cimentarmi con un tema che così tanto mi appassionava e su cui avevo diverse esperienze importanti. Mi gettai a capofitto su questo lavoro.

Il primo progetto presenta delle caratteristiche abbastanza diverse da quello realizzato. Quello che vediamo oggi è infatti il risultato di una fusione tra il mio progetto e quello di Sami Mousawi,  un architetto iracheno di formazione inglese. La genesi di fusione dei due progetti si ebbe quando, al momento della scelta di due gruppi vincitori, fu deciso di far valutare i due lavori a degli esperti venuti dal Cairo. Questi apprezzarono soprattutto l’interno del mio progetto, che infatti rimase simile al progetto costruito, ma apprezzarono del progetto di Mousawi, il fatto che fosse accessibile da una strada. Questa sarebbe dovuta rimanere, in un certo senso, una strada pubblica, tuttavia nel clima in cui la moschea venne realizzata si decise subito di circondare il lotto con una “muraglia di ferro”. Inizialmente avevamo pensato a una piccola strada che andasse ad unire i due elementi di cui la moschea è costituita. Fu poi il contributo di Mousawi a renderla più grande e monumentale. Mousawi contribuì nei primi tempi all’elaborazione del progetto, ma poi litigò con il centro islamico, sicché il lavoro venne sostanzialmente portato avanti da me e Gigliotti.

Per quanto riguarda la scelta delle forme, ovviamente l’idea del dialogo ha influito molto sul progetto. In realtà cultura islamica e occidentale non sono due entità separate. Sono due entità che si sono incrociate moltissimo durante il tempo e l’impatto dell’architettura islamica su quella occidentale è un dato di fatto innegabile. Già nel romanico, ma soprattutto nel gotico, c’è una influenza islamica schiacciante, anche se poi il risultato finale è differente. A me interessava molto questo aspetto. Ho studiato Guarini, che tra l’altro è stato il primo a subire l’influenza islamica, e attraverso lui ho capito che l’idea degli archi che si incrociano era già stata adottata nel romanico. Non è escluso che Guarini si sia ispirato alla chiesa di Sant’Evasio a Casale Monferrato, che è forse uno dei primi esempi italiani indubbi in cui l’influenza islamica è forte. È proprio nel mondo islamico che le nervature, che una volta erano dentro il corpo della volta nell’architettura romana, diventano un elemento indipendente che addirittura si libera nello spazio.
Per la moschea di Roma ho scelto degli elementi che potessero rafforzare questo rapporto che c’era stato nei diversi periodi storici. La scelta è ricaduta quindi su questi archi intrecciati.
Sempre in relazione a questa logica è stata presa in considerazione anche un’altra idea tipicamente romana adottata anche dall’Islam, ovvero l’utilizzo dei portici.

Un ulteriore elemento utilizzato come strumento di dialogo è dato dalla concezione di cerchi concentrici, che tra l’altro è un po’ alla base della mia teoria architettonica dei campi magnetici secondo la quale lo spazio architettonico può essere paragonato a questi ultimi. Ho quindi utilizzato questi cerchi concentrici per rappresentare in un certo senso la molteplicità nell’unità. I cerchi concentrici, che poi fanno parte della concezione cosmica dell’islam data dai 7 cieli che Maometto attraversa, sono appunto alla base della cerchiatura della cupola. Per quanto riguarda invece la distribuzione generale dei volumi, la curvatura di questi è dovuta da un parte al campo magnetico della città mentre dall’altra parte al campo magnetico tipico dell’Islam, ovvero il richiamo alla Mecca. Le curvature in questo caso sono molto smorzate in quanto il terreno era limitato ma il concetto è lo stesso predetto. La fisica teorizza l’effetto a distanza. L’architettura analogamente ha una sua natura che crea un effetto a distanza.
Anche le colonne presenti nel progetto hanno un significato simbolico. Queste fanno riferimento alle palme presenti nel giardino della casa di Maometto e allo stesso tempo vogliono riprendere la posizione delle braccia e delle mani che viene assunta durante l’atto preghiera.
Ho cercato quindi un dialogo simbolico con i mezzi che ci vengono concessi dall’architettura.

3 – Quali sono state le problematiche religiose, politiche, architettoniche e legate al Genius loci che ha dovuto affrontare? Qual era lo spirito di quel luogo e come ha risposto ad esso?

Il discorso del dialogo vale anche in questo caso perché ovviamente vi è un richiamo alla cultura islamica e ai suoi rapporti con il lato occidentale ma ci sono anche espliciti richiami alla tradizione romana. Questa idea degli archi intrecciati era già stata usata da Borromini per la Chiesa dei Re Magi probabilmente proprio con l’intenzione di richiamarsi all’Oriente. Quindi mi è sembrato quasi un obbligo, per uno studioso di Borromini come me, di partire da li.

Diciamo che ci fu un gradimento generale da parte della comunità islamica, ad eccezione tuttavia di alcuni. Coloro che non erano d’accordo era perché volevano una moschea di tipo tradizionale, che non avesse nulla di moderno, mentre tutto sommato anche questa apertura al nuovo ha avuto un peso in quanto poi la tradizione delle moschee si è molto arricchita e modernizzata. Questo fu uno dei primi esempi. Vi era un esempio precedente a Londra che partiva dall’idea di semplificazione. In questo caso si era andati a realizzare una moschea tradizionale priva di decorazioni, esaltando il rapporto tra lo spazio interno e quello della cupola. La genesi del mio progetto, a differenza di quello londinese, è molto più complessa ed è forse questo che ha determinato un certo successo anche di critica.

Dal punto di vista di approvazione da parte della Chiesa la cosa partì positivamente fin dall’inizio. Eravamo subito dopo il concilio e quest’ultimo era stato molto chiaro sul considerare il dialogo tra le religioni come un aspetto dell’evangelizzazione. Sotto questo profilo la moschea partì senza problemi.

Una figura determinante per il successo dell’operazione fu il Sindaco di allora, Giulio Carlo Argan. In una campagna così violenta dove si pensava che tutti fossero contro, per una ragione o per l’altra, Argan ebbe la forza di imporsi. Se c’è un personaggio politico ma allo stesso tempo culturale che si può considerare alla base del successo dell’operazione questo fu proprio Argan.

4 – Come e perché l’architettura dovrebbe rispondere al fenomeno della migrazione?

Io non credo assolutamente nell’integrazione, l’integrazione è un’invenzione peggiore del colonialismo. Integrazione vuol dire eliminare le differenze, cercare di assimilare anche dal punto di vista culturale e religioso chi arriva. E questo è davvero peggio del colonialismo, perché perlomeno il colonialismo lasciava a questi signori la patria, il rapporto con il suolo. Oggi invece, i migranti, oltre ad essere privati del suolo vengono privati anche di quei legami con la propria cultura di origine. Ora, se tutto questo avvenisse spontaneamente, nel giro di un secolo questo fenomeno diventerebbe una cosa inevitabile e accettabile. Invece c’è la tendenza ad inculturare e quindi privare della loro autonomia e identità queste persone, cosa che secondo me è sbagliata.
È fondamentale riuscire ad ospitare queste persone lasciandogli la possibilità di vivere secondo il loro modo di vita, permettendogli di trasformare poi quest’ultimo secondo il loro desiderio e anche  a seconda delle istanze generazionali. Perché ciascuna generazione ha il suo spirito.

Da questo punto di vista è stata molto importante per me l’esperienza di Strasburgo (città in cui Paolo Portoghesi ha costruito una seconda moschea N.d.R.). Li c’è una comunità che in gran parte è presente da 3 generazioni. In Francia, dove c’è un radicamento simile, c’è una formidabile produzione letteraria e filosofica, esiste questo Islam europeo che si evolve ma secondo i suoi desideri e non in base ad un’idea di integrazione della società che porta a eliminare le differenze fino ad estinguerle. Da questo punto di vista l’architettura è importantissima, perché permette agli immigrati di mantenere un legame, non tanto fisico quanto culturale, con la patria. È una cosa delicatissima. La cultura islamica sta vivendo un periodo di impoverimento. Se noi la paragoniamo alla cultura islamica di 2-3 secoli fa non c’è paragone. Basta pensare alla produzione filosofica che oggi è quasi nulla. L’architettura dovrebbe, secondo me, non tanto sperimentare strade assolutamente nuove, quanto coltivare questa operazione che ho cercato di fare, ovvero confermare alcuni aspetti di questa identità ma allo stesso tempo dare atto che ovviamente esiste un altro luogo da dove questi signori sono arrivati e che a loro volta è patria della comunità che vi è presente.
Nasce un confronto critico da tutte due le parti, però se l’architettura riesce a confermare questa identità, si rende possibile in futuro qualunque tipo di alleanza e assimilazione.

In Italia c’è una gran confusione. La sinistra è tutta impegnata nell’integrazione dei migranti senza rendersi conto dei suoi rischi, mentre la destra vuole solo sbarazzarsene illudendosi che questo sia possibile. Quello che nessuno riesce a cogliere però è che queste migrazioni saranno sempre più forti in futuro, soprattutto a causa dei cambiamenti climatici che renderanno parte del pianeta inabitabile. Non so quanto le nuove generazioni siano sensibili a questo tema, ma per me è un problema fondamentale che andrebbe affrontato prendendo il toro per le corna. Tuttavia oggi ci si limita a constatare. L’Italia sta diventando tropicale, ma le conseguenze della tropicalizzazione sono quasi inimmaginabili. Non si sta facendo quasi nulla per debellare questo problema. Ogni tanto si fa una riunione internazionale che tuttavia porta a delle decisioni a corto raggio. Non ci si rende conto che la natura ha una forza di fronte a cui quella dell’uomo è ridicola.

5 – Che ruolo ha la città di Roma nel processo di ospitalità?

Secondo me tutto sta in questa curva, generata dal campo magnetico, che rappresenta la città. La città è una realtà e chiunque arrivi, da qualsiasi parte del mondo, non può non sentirne l’influenza. L’influenza, ovviamente, deve rendere possibile la libertà e per ottenere ciò, questo campo magnetico della città deve operare senza violenza e senza sopraffare. È evidente che l’influenza della città sia importante, infatti ho sempre cercato di tenerne conto nei miei lavori. Ho sempre ricercato quegli aspetti tradizionali della città, sia del periodo storico attuale che di quello passato. Per esempio il porticato, è quasi un elemento dimenticato nella città, è un punto interrogativo, come mai?

Quella Roma antica in cui lo stare insieme era così importante, potrebbe essere qualcosa che si riaffaccia. L’edificio deve per un certo senso registrare la realtà e dall’altro essere profetico guardando verso il futuro. Deve mantenere qualcosa di provocatorio, di innovativo. Questo è un po’ il compito dell’architettura, quello di far sentire fortemente il campo magnetico della città senza tuttavia rispecchiarlo passivamente, ma appunto, cercando poi di interpretarlo secondo una logica.
L’architettura è sempre un po’ profezia, è quindi questo secondo me l’aspetto che andrebbe coltivato. Adesso le nuove generazioni devono fare le proprie scelte. Io ho tentato di convincere i miei colleghi a seguire questa direzione, ma non ci sono riuscito. Praticamente la mia operazione, ad oggi, rimane isolata.

6 – Qual è il legame che è intercorso tra architettura e politica durante la realizzazione della moschea?

Io ho assistito, sul piano della politica, ad una sorta di annullamento di questa dimensione. Quando ero giovane l’impegno politico era un’esigenza fondamentale e soprattutto lo è diventato con la generazione dei miei primi allievi, quelli del ’68. Questa ovviamente, la mia parabola, è una parabola che ha attraversato diverse situazioni.

All’inizio c’era la speranza della rivoluzione. Quando ero adolescente mi rendevo conto fosse necessario cambiare il modo di vivere. Ovviamente la strada era quella della rivoluzione. Mi iscrissi al partito socialista nel ’61, quando era un partito per la metà costituito da anarchici. La vita di sezione mi permise di entrare in contatto con persone di un’altra classe sociale e soprattutto con una forte volontà di liberazione. La differenza rispetto ai comunisti era che da una parte si cercava una regola mentre dall’altra si cercava un clima, non dico senza regole, ma di continua interpretazione delle regole. Cosa che a me era in quel momento congeniale.

Nel ’71 partecipai al tentativo di riforma dell’università che poi finì con l’occupazione della facoltà. Negli anni ’80, tornato a Roma, conobbi Craxi. Mi sembrò una persona che aveva le idee chiare su come cambiare il modo di vivere e quindi accettai questa volontà di un riformismo critico che poi ovviamente fu condizionato dal clima in cui ci si trovava.
Tutto sommato nei primi anni di questo tentativo ci fu una certa vivacità, c’era una ricchezza di posizioni. A mio parere è stato indubbiamente uno dei pochi periodi della vita culturale italiana, in cui la politica è riuscita a combinarsi con la cultura.

7 – Oggi spesso siamo incerti ed insicuri. Non abbiamo punti di riferimento né grandi ideali a cui aggrapparci. Ci chiediamo se non serva un nuovo stile in architettura: stile inteso come contenitore di valori, concetti, ideali e soprattutto una direzione in cui andare. Ha senso oggi parlare di stile architettonico?

Ha molto senso se parliamo di stile di vita che poi può tradursi benissimo in architettura. La nuova generazione potrebbe farsi carico del problema dell’ambiente e partendo da questo cercare di salvare l’umanità dai tanti rischi. Rischi come quello della sopravvivenza, per poi passare al salvataggio di quello che è un po’ il retaggio più forte delle ultime rivoluzioni: la libertà. Secondo me, già questi due elementi basterebbero. Io continuo a insegnare nonostante abbia 87 anni. Dovrei forse smettere di pretendere di insegnare, ma persevero perché vedo un certo sbandamento ma anche una certa disponibilità all’impegno nei giovani che incontro.

8 – Facendo un confronto con lo scorso secolo, durante il quale la battaglia ideologica tra gli architetti appartenenti a correnti e stili differenti era molto forte, oggi viene da dire che non ci sia più una presa di posizione. Non vi è più lo stesso attivismo che ha connotato la storia dell’architettura del ‘900. Lei cosa ne pensa?

Io non mi preoccuperei tanto di questo problema. Ogni generazione vive il mondo in maniera diversa, l’importante è viverlo avendo le chance per trasformalo. Non c’è dubbio che i grandi sistemi ideologici abbiano deluso. Oggi bisognerebbe chiedersi cosa c’è rimasto. C’è rimasta la cultura, la storia, il rapporto concreto con le cose. È poi necessario sapere individuare quegli aspetti della vita che richiedono un impegno preciso da parte delle persone. Questi aspetti esistono e non si può sfuggire ad essi.

Indubbiamente la cosa importante è lavorare per scegliere e capire quali sono i problemi da affrontare e affrontarli usando tutti gli strumenti offerti dal mondo di ieri. Questo perché il mondo di ieri è talmente ricco di proposte e strumenti che non possiamo considerarci così poveri. Noi siamo effettivamente ricchi, anche per quanto riguarda l’architettura.

Penso che ci sia stato un peggioramento per quanto concerne la qualità dell’architettura. Ci si è interessati pochissimo alle città. Oggi forse, anche per merito della Cina, questo problema sta riemergendo. Se si pensa che nell’800 in Europa sono state costruite meravigliose città che ancora funzionano perfettamente, oggi noi in confronto facciamo la figura dei dissipatori. Non sappiamo più come muoverci nel “problema” delle città.

9 – Qual è la sua definizione di architettura?

Diciamo che lo scopo dell’architettura per me è molto chiaro e in certi momenti della storia questo scopo è stato raggiunto: migliorare la vita degli uomini. Naturalmente è molto generico. Scendendo in una definizione più dettagliata si può dire che l’architettura è un mezzo che permette all’uomo di proteggersi dall’atmosfera e che gli consente, allo stesso tempo, di coltivare la sua vocazione sociale. Queste sono le due cose fondamentali. Da una parte proteggersi dall’atmosfera, dall’altra migliorare la vita dell’uomo aiutandolo a vivere secondo le sue vocazioni che sono diverse da paese a paese e da clima a clima. Effettivamente l’uomo è riuscito a fare queste cose, soprattutto all’inizio. All’inizio le piccole aggregazioni tra persone, che si conoscono e hanno in comune molti elementi, sono quasi sempre molto felici così come lo sono le forme architettoniche. A me piace molto l’architettura africana, soprattutto quelle delle tribù che realizzano questa condizione di felicità.

Un’altra cosa interessante è data dal fatto che esiste da una parte la tendenza a identificare il luogo sacro e dall’altra una tendenza a mettere il luogo sacro nella casa. Tutto ciò rappresenta due gradi diversi di socialità che si realizzano attraverso l’architettura.
Naturalmente l’architettura è diventato un mestiere. Lo è diventato un po’ come la politica e come la politica spesso ci si dimentica che siamo stati delegati a fare quello che gli uomini facevano da sé.

10 – Come, quando e perché ha deciso che l’architettura sarebbe stata la sua strada?

Questo avvenne molto presto, mio padre era ingegnere quindi si parlava spesso a casa di costruzioni. Poi venni fulminato dall’amore per Borromini. Quando ero ancora bambino ricordo che vedevo andando a scuola la cupola di Sant’Ivo, che per me rappresentava un messaggio. Era un qualcosa che mi turbava in un certo senso. Un oggetto diverso dagli altri che creava un problema. E il fatto che l’architettura potesse creare dei problemi mi affascinò da subito.

Ero anche molto interessato alla letteratura, ma alla fine scelsi l’architettura perché occupandosi anche di storia voleva dire lavorare su più dimensioni. Dimensioni come quella della materia e quindi del formare.

11 – Quale consiglio vorrebbe dare ai futuri architetti e ai futuri professori d’architettura?

Io direi loro di battersi per cambiare stile di vita. In che direzione non lo so, bisogna scegliere liberamente scoprendolo dentro di sé. Un errore clamoroso che si fa normalmente è di pensare che l’architettura si faccia ricopiando quello che già c’è, guardando le riviste, ecc… Effettivamente bisogna prima dare delle risposte interne e poi cercare di far diventare pensiero l’Architettura.

Per diventare professori invece è necessaria una vocazione. Una vocazione a trasmettere le idee e cercare di capire come questo processo di trasmissione possa avvenire nella sostanza. Normalmente le persone non sanno insegnare, l’insegnamento è effettivamente un’arte che si basa sull’immedesimazione. Il professore deve riuscire ad entrare nella testa dello studente e capire come questo messaggio possa essere assimilato. Tutti possono diventare professori, però bisogna essere dotati. Diciamo che normalmente l’allievo fraintende, ma è questo il bello. In fondo il pensiero genera pensiero, non soltanto mimesi e imitazione. Questa è la cosa bella dell’insegnare.

 

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Duccio Prassoli Administrator
Graduated at the Department of Architecture in Genoa, he is currently pursuing his Master’s degree at the Polytechnic of Milan. He is interested in the architecture of the 20th century and the influence that this is having on society and contemporary architectural thought.
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